
“Ti hanno recisa, Celina, mentre sognavi,
perché il sogno non avesse a finire.
E ora continua a sognare, è il sogno di El Salvador
il sogno dei cinque secoli di tutti gli uccisi.
Il sogno che nessuno squadrone può uccidere,
il sogno di ogni povero, ricco di sogno”.
E Rutilio Grande diceva: “Celina, sei il seme più piccolo
fra tutte le sementi”. E i due campesini uccisi con Rutilio
dicevano: “Sei il frumento per le nostre eucarestie”;
e tutti avevano la faccia di Cristo.
Allora il vescovo Arnulfo con appena un cenno
ti presentava al trono del Grande Silenzioso.
E tu, novello angelo di Pasqua, iniziasti a dire con voce squillante: “Non cercate tra i morti coloro che vivono…”.
“Avanti Ignacio Ellacuria, cinquantanove anni,
basco d’origine, salvadoregno di cuore, gesuita,
la mente pensante del Salvador: ora per sempre libero!”
Questa splendida poesia di padre David Maria Turoldo mi è tornata subito alla mente quando ho letto (e gioito) della notizia che la Conferenza episcopale salvadoregna ha aperto il processo di beatificazione dei martiri dell’UCA, l’Università Centro Americana di San Salvador, all’interno di “un gruppo di martiri” della guerra che per lungo tempo ha devastato il piccolo Paese centroamericano. Nell’occasione, l’arcivescovo di San Salvador, mons. José Luis Escobar, ha detto: “Oggi voglio ricordare in modo speciale uno di questi martiri, mi riferisco a padre Ignacio Ellacuría che, esattamente 10 giorni prima del suo martirio, cioè il 6 novembre 1989, ricevendo il premio internazionale Alfonso Domingo come rettore dell’UCA, nel municipio di Barcellona, disse: “Solo con l’utopia e la speranza si può credere e avere il coraggio necessario per tentare di cambiare la storia, sovvertirla e lanciarla in un’altra direzione, insieme a tutti i poveri e gli oppressi del mondo.” Sono queste parole profonde che racchiudono una grande verità, la storia va invertita a partire dai poveri e dagli oppressi perché sono loro le vere e uniche vittime della storia.
Facciamo un passo indietro e un po’ di memoria. Il Salvador viene investito, tra il 1979 e il 1992, da una guerra civile che lascia un bilancio di 75.000 morti, 8.000 dispersi e circa 12.000 feriti e mutilati. Il 16 novembre 1989, un plotone dell’esercito salvadoregno si presentò alla residenza dei sacerdoti gesuiti. Il governo di destra guidato da Alfredo Cristiani era convinto che l’Università fosse un rifugio per i guerriglieri. Ma l’unico crimine commesso dai gesuiti fu quello di cercare di favorire un riavvicinamento tra le parti in conflitto, lo Stato salvadoregno e la guerriglia del Fronte di Liberazione Nazionale Farabundo Martí. Fra le tre e le quattro di mattina, durante il coprifuoco e mentre i bengala illuminavano a giorno la città per favorire i caccia di un’ aviazione che stava distruggendo la capitale, trenta sconosciuti in divisa militare entrarono nel recinto dell’ ateneo assassinando il rettore, padre Ellacuria, i padri Segundo Montes, Ignacio Martín-Baró, Amando López, Juan Ramón Moreno e la cuoca Elba insieme a Celina, la sua figlia la figlia quindicenne, a cui padre David dedica la poesia.
Il brutale assassinio organizzato da alti ufficiali delle forze armate del Salvador
Nella tradizione dei più macabri rituali usati dagli squadroni della morte i sacerdoti furono seviziati e torturati prima di essere finiti con numerosi colpi di pistola. I corpi di padre Ellacuria, di Ignacio Barò e di Segundo Montes, vennero poi trascinati nel cortile dell’ università dove furono ritrovati con il cranio e il cervello spappolati e i testicoli tagliati.
I gesuiti e le due donne, che erano rimaste all’ interno dell’ università convinte di potersi salvare in quel luogo di studi e di fede dai combattimenti in corso nella capitale, furono sorpresi nel sonno quando approfittando del coprifuoco il commando omicida penetrò nelle loro stanze da letto. Commando organizzato da altissimi ufficiali delle forze armate del Salvador, compresi il ministro della Difesa René Emilio Ponce e il vice-ministro Juan Orlando Zepeda. Che diedero agli esecutori materiali un ordine preciso: “Non ci devono essere testimoni”. Non a caso, nel giugno scorso il Procuratore generale della Repubblica di El Salvador ha presentato l’Atto di accusa nei confronti di otto persone – militari di alto grado – che sarebbero stati i mandanti della strage. Accusato numero uno l’ex presidente Alfredo Cristiani, che avrebbe organizzato il piano.
I gesuiti, in Salvador, sono sempre stati impegnati nell’osservazione partecipante di una realtà politica segnata dalla violenza repressiva di un governo ostile a qualsiasi movimento che andasse in direzione di speranze riformiste. L’ottica della “liberazione”, infatti, fu per loro fatale in un clima già difficile in seguito al martirio di padre Rutilio Grande (12 marzo 1977), di mons. Oscar Romero (24 marzo 1980), l’assassinio di quattro suore americane (4 dicembre 1980) e allo scoppio della guerra civile (1981-1992) che portò alla morte violenta più di settantacinquemila persone (tra queste, il 13 marzo del 1983, Marianela Garcia, presidente della Commissione per i Diritti umani).
Ma, come diceva Ignacio Ellacuría, finissimo teologo della liberazione, bisogna “hacerce cargo, cargar y encargarse de la realidad”, cioè farsi carico della realtà, ossia conoscerla realmente e viverla, assumere il compito di trasformarla mettendo l’intelligenza al servizio della prassi e accettandone la responsabilità etica. Lui e i suoi confratelli lo fecero fino alla morte. Consapevoli che l’opzione preferenziale per i poveri, poteva comportare il martirio.
Una persecuzione della Chiesa cattolica come ai tempi delle catacombe
Sta di fatto, come ha scritto Gianni Beretta: “In El Salvador si è consumata una persecuzione della Chiesa cattolica come ai tempi delle catacombe; per di più per mano di stessi cattolici che rivendicavano per “designazione divina” da posizioni di potere il proprio modo di esserlo; a scapito degli altri. Tanto che è dovuto arrivare un papa latinoamericano per “risarcire” una serie di torti”.
Quella lunga lista di martiri dovremmo, nelle nostre chiese, ricordarla più spesso. I loro nomi impressi sugli stipiti delle nostra coscienze. Uomini e donne convinti che non ci potesse essere fedeltà a Dio senza fedeltà all’uomo concreto. Costi quel che costi.