Natale e la interminabile rinascita

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Spunti per rimuginare la Parola a cura di Omar Valsecchi – Natale

Dal Vangelo secondo Luca
In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra.
Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria.
Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.

Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme:
egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide.
Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta.

Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto.
Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.

C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto,
vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge.
Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce.
Essi furono presi da grande timore, ma l’angelo disse loro:
«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo:
oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore.
Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».

E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva:
«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

La vulnerabile onnipotenza

C’è un Dio che nasce in noi: si fa bambino, assume la nostra piccolezza, il nostro limite, diventa fragile. E in questa sua vulnerabile onnipotenza d’amore si lega a noi per sempre, facendosi carne: Dio si fa bisogno, lacrime, abbraccio e bacio.

Diviene uomo per renderci sempre più umani.

Si compie l’invocazione incessante dell’Avvento: “Vieni Signore!”. Lui viene, è qui, ritorna per rinnovare la sua fiducia nella nostra umanità.

È un Dio innamorato della nostra umanità e ci prega, ci implora di averne anche noi sempre più cura.

Il Dio-uomo di Betlemme viene a dirci che non abbiamo altra strada per compiere noi stessi che quella dell’assunzione piena della nostra umanità. Nel Natale ci viene consegnata la responsabilità di diventare sempre più umani. Natale è la festa dell’uomo; dell’esaltazione dell’uomo da parte di Dio. L’umanità è scelta – innalzata – da Dio per rivelare pienamente se stesso: siamo di fronte ad un Dio che si fida perdutamente dell’uomo.

Il vero paradosso sarebbe proprio che mentre Dio sceglie di farsi umano, noi non ci prendessimo cura di continuare ad essere umani; di imparare ogni giorno a restare umani. Gesù si aggrappa tenacemente all’umano per non smentire il divino.

Per immergerci maggiormente nella bellezza di questo annuncio di fiducia e speranza nell’umano, vorrei solo sfiorare alcuni passaggi della narrazione. L’evangelista Luca ci consegna l’inesauribile fonte di stupore, custodita nell’annuncio della nascita di Gesù a Betlemme.

Dare alla luce

In particolare mi soffermo sul settimo versetto che raccoglie tre verbi semplici ma straordinari nella loro essenzialità: dare alla luce; avvolgere in fasce; deporre nella mangiatoia.

Dare alla luce significa non arrendersi al buio. È un invito ad assumerci la sfida di camminare nella notte, trovando il coraggio di attraversare le tenebre della storia per partorire luce, per generare umanità rinnovate, libere e vere. Solo così permetteremo a ciò che ci abita di affiorare, di emergere e farci uscire. Diamo alla luce per fare luce.

Una bellissima canzone di Niccolò Fabi si conclude con questa espressione che amo molto: “…chi viene alla luce illumina”. Venire alla luce è offrire a quanto ci circonda la possibilità di essere illuminato e quindi visto, scoperto. Esprime la fiducia che sì: un futuro di luce ci attende. È un atto mai compiuto, quello del nascere e del dare alla luce, richiede un profondo travaglio interiore. Sempre in quella sua canzone, Fabi afferma:

A volte manca il fiato; da qui non si torna indietro. Devi toglierti dal centro, devi farti spazio dentro. E poi dividere l’inutile da ciò che è necessario. E poi serenamente a ciò che non ti rappresenta dire ‘no’ finalmente…

Sarebbero molte le citazioni che si potrebbero ancora riportare a questo riguardo, due sono quelle che trovo maggiormente stimolanti. Anzitutto queste parole di Maria Zambrano:

L’animale nasce una volta per tutte, l’uomo invece non è mai nato del tutto, deve affrontare la fatica di generarsi di nuovo o sperare di essere generato. La speranza è fame di nascere del tutto, di portare a compimento ciò che portiamo dentro di noi solo in modo abbozzato. L’uomo ha una nascita incompleta; deve dunque finire di nascere interamente e crearsi il proprio mondo, il proprio posto, il proprio luogo, deve incessantemente partorire se stesso e la realtà che lo ospita.

E poi, Christian de Chergé, il priore di Tibhirine:

Attraverso gli eventi che segnano le nostre vite ci sentiamo invitati a nascere. La vita di un uomo passa di nascita in nascita. Nella nostra vita c’è sempre un bambino da mettere al mondo: il figlio di Dio che noi siamo.

Avvolgere in fasce

Quella nuova vita ‘data alla luce’ incontra immediatamente le cure di sua madre che lo “avvolse in fasce”. C’è un germoglio di umanità fragile che chiede di essere custodito, avvolto. Fragilità chiama tenerezza, custodia attenta e generosa; occhi stupiti e riconoscenti.

Ci è chiesto di prendercene cura con fasce di silenzio, ascolto e benevolenza. Ma anche con le fasce dell’impegno, del creare cultura, del riaprire spazi di ospitalità e reale solidarietà. Ed è soprattutto nostra la fragilità che siamo chiamati a riconoscere, a non mascherare, custodendola in noi per aprirci con accoglienza e prossimità verso la fragilità dell’altro.

Come avvenne per i pastori in quella notte, anche a noi oggi una voce ci raggiunge e ci annuncia che nella nostra vita, qui e ora, troveremo un bambino avvolto in fasce. Troveremo una vita piccola, una promessa, un inizio d’uomo. Troveremo un bambino in noi, quel bambino che ancora siamo e che ha bisogno di essere riconosciuto, amato e accudito.

Scopriremo tutto il bisogno di cura e di responsabilità che la vita ci presenta. Una cura che interpella! Quel bambino desidera ri-aprirci alle possibilità deposte in noi e che ancora non abbiamo saputo realizzare. Nell’accoglierlo ci accorgeremo che non è venuto per occupare spazio, per invadere, ma al contrario per ‘fare spazio’, lasciarci essere e render(ci) possibile un nuovo inizio. È venuto per ridare respiro allo stupore. Stupore per un Dio che sceglie di esporsi (anzi deporsi) e non imporsi.

Deporre nella mangiatoia

Quel germoglio di vita, infatti, viene “deposto in una mangiatoia”.

L’apparire di Dio nella storia inizia con una sorta di sua “passività”. Il suo nascere in noi ci consegna già un corpo deposto (chiarissimo il richiamo alla deposizione del corpo crocifisso), una vita affidata.

Lui si affida, si depone nelle nostre mani, nelle mangiatoie delle nostre ricerche di senso e della nostra sete di futuro. Il suo intento è inabissarsi in noi affinché ognuno/a possa dargli del ‘tu’, avvicinarlo e sentirsi in confidenza con Lui, sentirsi pensato e sapersi da Lui amato.

Dice Carlo Carretto:

Dio è davanti a te. Dio viene a te. Contemplare non significa guardare ma essere guardati. E Lui è là che ti guarda. E se ti guarda, ti ama e amandoti, ti da ciò che cerchi: se stesso.

E ci guarda dal basso di una mangiatoia: si fa pane.

Il Dio bambino di Betlemme ci annuncia che amare significa mettersi nelle mani dell’altro, ritraendosi e lasciando spazio all’altro. Assume il limite e lo fa diventare possibilità di accoglienza e comunione.

C’è umanità, c’è nascita e c’è speranza solo quando anche noi sappiamo farci cibo per l’altro. Quando smettiamo di vivere nell’avidità, nell’ingordigia e nell’egoismo e ci preoccupiamo della fame dell’altro.

Quando saremo disposti anche noi a lasciarci mangiare per amore, la sua deposizione in noi avrà raggiunto il suo compimento come quel seme che si consegna alla terra per morire e portare frutto in noi.

La frase che attraverso questi tre verbi ci narra la rivelazione del nuovo volto di Dio, si conclude con una annotazione che lascia una certa amarezza: “per loro non c’era posto nell’alloggio”.

Per un Dio così umano, un Dio così inedito non c’è posto nel regno del potere, in quel regno che ancora stiamo continuando a costruire. Non c’è posto per il dare alla luce, l’avvolgere in fasce e il deporre, in una città, in una società in cui chi è diverso non trova accoglienza, in cui fatichiamo a fare spazio e non invadere tutto con la nostra ossessione di sicurezza e controllo.

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