Leggo da una intervista pubblicata dalla Croix: “Insegnare non significa trasmettere un sapere inchiodato sulle sue certezze, ma cercare, inventare una forma, barattare una materia strana – le parole, le idee – non davanti a un uditorio ma con esso, con il suo aiuto tacito e necessario. Si tratta, insomma, per nessun motivo di rendervi certe cose più facili, al contrario: si tratta di rendervele più difficili’”.
Queste ultime parole sono citate da Paul Valéry, nel suo Cours de poétique, da poco pubblicato da Gallimard. Seducente questa idea. E, tanto per obbedire ancora una volta alle mie deformazioni professionali, mi viene facile chiedermi che cosa significa applicare quella folgorante intuizione al nostro annuncio di credenti. È la nostra tentazione di sempre di rendere facili le cose difficili, di rendere vivibili le verità più paradossali. Abbiamo la tendenza del cuoco che deve far bollire accuratamente gli alimenti. O siamo le balie che offrono il latte che contiene già tutte le componenti nutrizionali necessarie.
E invece. Come affascina l’idea di un vangelo che rende tutto più difficile. Perché ci dice che siamo chiamati al paradiso, siamo figli dell’Altissimo e all’Altissimo non si arriva in carrozza.
“Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa” (Mc 4, 27).
È il vangelo di qualche giorno fa. Di straordinario stimolo per noi credenti di oggi. Siamo infatti continuamente costretti a vedere e constatare l’impoverimento progressivo della Chiesa. Si deve vedere che c’è poco da vedere: la constatazione di un vuoto. La nostra crisi e la nostra delusione nascono, dunque, dal nostro sguardo o da quello che può essere assimilato allo sguardo: vediamo, prendiamo atto, constatiamo che siamo diventati poveri.
Questo passo del vangelo, invece, è il paradosso più incredibile: è reale ciò che non si vede. Avviene qualcosa che non si è in grado di constatare. L’uomo che ha gettato il seme “non sa”. In fondo, la nostra grandezza sta, mi pare, non nel sapere ma nel sapere di non sapere. Moderna versione della docta ignorantia dei grandi teologi del passato.
Sicché, la reazione giusta alla nostra delusione non dovrebbe consistere nell’approfondire la nostra indagine, nel rendere acuto il nostro sguardo. Ma nell’ignorare l’indagine e nell’accettare la nebbia del nostro sguardo: accettare di non sapere. Non è l’agricoltore che fa crescere il grano.
Abbiamo celebrato, anche stamattina, come sempre. Noi quattro canonici, due, tre fedeli con noi sull’altare, una coppia sperduta nel duomo vuoto. Spettacolo deprimente, per certi versi, stimolante, per altri.
Tutto dipende, anche qui, con quale occhio si vuole guardare. Se il punto di vista è quello della visibilità – della vistosità, anche – della Chiesa non c’è che da deprimersi e perfino da chiedersi se è proprio giustificabile una liturgia eucaristica così striminzita.
Ma, cambiando il modo di guardare, si può perfino sentirsi orgogliosi di essere quelli che pregano mentre, tutti, tutti gli “altri”, lavorano, corrono, soffrono… Siamo tra gli incaricati di far salire le voci al cielo. La Chiesa, senza che l’abbia deciso, si trova a essere sempre più monastero: prega al posto del mondo e prega, anche, per il mondo. Monastero non perché è fuggita via dal mondo ma perché il mondo è fuggito via da lei. Per poter svolgere bene il nostro compito di delegati alla parola di lode rivolta al cielo, bisogna però credere che il cielo c’è, che ci ascolta, che, quindi, vale la pena parlargli. Nella fragilità della fede o nel totale oblio di essa si chiede a chi dice di averla, di averla davvero e di averla tale che possa davvero gridare al cielo in nome di tutti.
2 Comments
Caro don Alberto,
solo per dirti che quando ogni mattina celebrate con il Duomo vuoto non siete soli: molti fedeli, in macchina o sui mezzi pubblici o camminando, mentre si recano al lavoro elevano una breve preghiera al Signore e continuano a farlo sapendo di essere in comunione con chi è fisicamente presente davanti all’altare a nome di tutti.
Buona giornata
Bruno
Questo, credo, è il senso – bello – della fratellanza cristiana