I giornali hanno raccontato il fattaccio di Paderno Dugnano con le sue crudezze. Riccardo, 17 anni, prima ammazza il fratello, Lorenzo, 12 anni, che dorme accanto a lui. La madre sente dei rumori e accorre. Riccardo ammazza anche lei. Il padre Fabio sente le urla e si precipita per vedere cosa sta succedendo. Si trova davanti Riccardo, sporco di sangue, con il coltello in pugno. Riccardo pugnala anche il padre, sulla soglia della camera. La sera prima, la famiglia aveva fatto festa per il compleanno di Fabio che aveva compiuto i 51 anni. Alla festa erano intervenuti anche dei parenti che vivevano in villette vicine a quelle del delitto.
Ci sono alcuni “dati” che impressionano più degli altri. Per la verità, tutto impressiona in questo dramma. Ma qualcosa emerge comunque. I protagonisti sono descritti da tutti come “normali”, e normale è la famiglia. Nessuna tensione evidente, nessun contrasto. Era la famiglia “del Mulino Bianco”, dice, sintetizzando, un amico di famiglia. Poi l’omicida: “ragazzo serio, studioso, tranquillo, sportivo”. Nessuno aveva notato problemi con i familiari e comunque l’interessato non ne aveva mai parlato. Anche il preside della scuola frequentata da Riccardo conferma tutto: “aveva amici, una fidanzatina e non aveva mai dato problemi”. Solo si fa notare che era un po’ introverso, taciturno.
Ma quasi tutti gli adolescenti sono taciturni e introversi. Il Corriere riferisce anche affermazioni di Riccardo: “Mi sentivo un corpo estraneo nella mia famiglia. Oppresso. Ho pensato che uccidendoli tutti mi sarei liberato da questo disagio”. “Mi sento solo anche in mezzo agli altri… Non avevo un vero dialogo con nessuno. Era come se nessuno mi comprendesse”. Così sintetizza, sempre il Corriere della Sera. Il linguaggio è un po’ letterario. Forse il giornalista ha dovuto rielaborare.
Proprio perché non ci sono ragioni straordinarie, bisognerà forse cercare qualche ragione ordinaria della vita di un adolescente. Gli psicologi ci spiegheranno il mistero di questa tragedia. Intanto possiamo tentare di capire qualcosa proprio partendo da quello che tutti ci dicono a proposito dell’adolescente. Ce lo descrivono, infatti, come un essere in formazione, che non è più un bambino e non è ancora un adulto. E’ un essere umano nel guado: sta transitando. Molti, in realtà fanno notare che tutti stanno sempre transitando: si vive cambiando. Ma nel caso dell’adolescente la distanza fra quello che non è più e quello che non è ancora è troppo evidente e il peso del cambiamento è troppo forte.
Se a questo “dato” di ogni adolescente si aggiunge, come pare di capire per Riccardo, una certa dose di introversione, la situazione si aggrava, nel senso etimologico del termine: il peso diventa più grave perché Riccardo era solo – o si sentiva solo ciò che, per lui, fa lo stesso – nel portarlo.
Poi c’è la famiglia. Dovrebbe essere la prima, naturale valvola di sfogo per l’adolescente. La famiglia di Riccardo era da “Mulino Bianco”, ci hanno detto coloro che la conoscevano. Ma forse – “forse”, perché, ancora una volta, possiamo soltanto brancolare – forse la perfezione della famiglia – Fabio era un imprenditore e aveva costruito la villetta nella quale la famiglia viveva – la perfezione della famiglia Mulino Bianco ha accentuato la distanza del ragazzo che si sentiva estraneo al mulino. Non era colpa della famiglia, se era così. Ma, forse, era proprio così. A tragedia avvenuta, si è portati a pensare che sarebbe stato meglio per Riccardo una famiglia nella quale si sbraitava e si litigava. Non avrebbe sentito la necessità di massacrare il fratello perché, magari, lo aveva già massacrato di botte la sera precedente e non avrebbe accoltellato la madre perché l’aveva già mandata a quel paese poche ore prima. E invece.
E invece il disagio accumulato ha deflagrato. Ed è stata la tragedia. La conclusione è semplificatrice e moralista all’estremo: abbiamo bisogno di famiglie e di società oltre la famiglia che sanno accogliere le proteste e le aggressioni, anche le più violente. Soprattutto i ragazzi ne hanno bisogno.
Di relazioni – che ci sono –, infatti, si vive e di relazioni – che mancano – si muore.