Le parole più profonde le ha dette il vescovo

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Ai funerali di Giulia Cecchettin. Citatissimo il discorso del padre di Giulia. Ma le parole che aiutano di più a capire il senso di quello che è capitato le ha dette mons. Claudio Cipolla, vescovo di Verona. Dialogo con un amico insegnante

Un dialogo con un amico – e un collega insegnante – forse non rientra tra i generi del giornalismo, nemmeno di quello online. Ci è parso però che alcune riflessioni espresse nel corso di una conversazione da Antonio Forte, docente di Lettere in un Liceo di Bergamo, meritassero di essere raccolte in forma di intervista: il nostro tentativo non è stato quello di aggiungere l’ennesima considerazione di ordine pedagogico-criminologico alle tante parole già spese sull’assassinio di Giulia Cecchettin, ma di indagare alcune impasse, incongruenze, avvitamenti del discorso pubblico riguardo a quest’orribile episodio e a quanto ne è seguito.   

Antonio, immediatamente dopo la celebrazione delle esequie della figlia (o forse, ancora prima?) nei media si discuteva della disponibilità o meno di Gino Cecchettin a «perdonare» l’assassino.  

«Capita spesso che le dichiarazioni riportate dalla stampa siano la conseguenza di domande (mal) poste dai giornalisti. Il cinismo ormai rituale della richiesta mediatica di perdono dell’offensore da parte dell’offeso, che in questo caso è un congiunto in preda alla disperazione, mi pare insopportabile: ancor più quando, a partire dalle parole pronunciate dal dolente, si innesca una grottesca e alienata spirale di commenti e di dispute».

Occorre forse ribadire che, in questa nostra conversazione, non vogliamo fare le pulci alle affermazioni di una persona mite e perbene come Gino Cecchettin.

«Per nulla. Io credo però che sia doveroso valutare la ricaduta pubblica di un clima per cui la vicenda di Giulia è stata avvolta di un’aura da tragedia collettiva. Tale clima porta a ripetere un po’ ovunque la parola d’ordine della “presa di coscienza”, a leggere “in tutte le scuole” – secondo una disposizione ministeriale – un testo redatto dal padre della vittima.

Al funerale, celebrato il 5 dicembre nella basilica padovana di Santa Giustina, Gino Cecchettin ha descritto la sua Giulia come “una giovane donna straordinaria” su cui si è scatenata una violenza maschile che prima l’ha privata della libertà, poi della vita. Occorre, ha detto Cecchettin, uno sforzo educativo dei giovani (maschi) alla responsabilità e al sacrificio, un’educazione familiare e pubblica al dialogo e all’ascolto della voce delle donne e dei consigli dei più anziani, per imparare a comporre i contrasti senza violenza, a gestire con equilibrio anche la sconfitta, sentimentale e non. E la Scuola dovrebbe di questo sforzo educativo essere attrice protagonista e sentinella.

Riprendendo questo messaggio, il quotidiano Avvenire ha visto in Gino Cecchettin l’uomo che, attraverso il dolore subìto, è “diventato, semplicemente, il padre che si deve essere” in quanto ha detto “che educare è aiutare i figli a conoscere il sacrificio, l’impegno, l’accettazione della sconfitta, è insegnare a guardare negli occhi degli altri, ad ascoltare, a comunicare realmente con empatia e rispetto. Cecchettin – sempre secondo Avvenire – ha parlato in nome di quei padri che “ci sono ancora, ma troppo spesso sono soli, perché il villaggio là fuori ha abdicato, rinunciando a essere la guida che indica come procedere in salita, delimita i confini, mostra la ferita del sacrificio, insegna a vivere”. Ecco, se si deve certamente condividere il plauso allo spessore umano del messaggio di questo padre, mi pare che una focalizzazione eccessiva sulla portata educativa del suo discorso, sostanzialmente in continuità con i piani interpretativi che si rilanciano sistematicamente ad ogni femminicidio, faccia passare in secondo piano il respiro politico e la capacità di scandaglio che la Chiesa ha dimostrato di saper esprimere attraverso l’omelia del vescovo di Padova ai funerali».

L’omelia funebre tenuta da monsignor Claudio Cipolla è stata molte volte citata, nei giorni successivi. 

«Mi è parso un testo significativo, in grado di offrire un’utile chiave interpretativa dell’accaduto: il testo del vescovo è risultato al tempo stesso “tradizionale”, in quanto espressione del suo magistero, e particolarmente incisivo, proprio in forza di categorie estranee ai toni e ai termini del dibattito pubblico in corso sulla violenza di genere». 

Vogliamo riportare un passaggio cruciale di quell’omelia? «Forse voi giovani – ha detto monsignor Cipolla – potete osare di più rispetto al passato: avete a disposizione le università e gli studi, avete possibilità di incontri e confronti a livello internazionale, avete più opportunità e benessere rispetto a 50 anni fa. Nella libertà potete amare meglio e di più: questa è la vostra vocazione e questa può e deve diventare la vostra felicità! L’amore non è un generico sentimento buonista, quindi. Non si sottrae alla verità, non sfugge la fatica di conoscere ed educare sé stessi. È empatia che genera solidarietà, accordo di anime e corpi nutrito di idealità comuni, compassione che nell’ascolto dell’altro trova la via per spezzare l’autoreferenzialità e il narcisismo. Se questo è il nostro sogno, se cerchiamo germogli di speranza e di amore avvertiamo tutti la fatica di questo lavoro interiore. La nostra fragilità rende corto il respiro della speranza e precaria la tenuta dei nostri amori. Attesa, speranza, amore sono la nostra vita bella».

«Da questo brano si evince chiaramente il salto di qualità rispetto al discorso di Gino Cecchettin. Il padre di Giulia, in linea col sentimento pubblico,  ha unilateralmente  evocato  una colossale operazione correttiva del sistema valoriale e dell’immaginario maschile come strategia di intervento decisiva nel contrasto alla violenza di genere. Il Vescovo, invece, ha utilizzato parole-chiave (“libertà”, “vocazione”, “empatia”, “compassione”, “speranza“) e formule significative (“accordo di anime e corpi nutrito di idealità comuni”) secondo una raffinata accezione teologico-ecclesiale che amplifica la portata e gli obbiettivi della nostra lotta.

Monsignor Cipolla ha posto l’accento sul fatto che la realizzazione del sogno d’amore, oggi, può passare solo attraverso un labor impopolare ma propedeutico, un faticoso lavoro interiore di conoscenza ed educazione di sé stessi (e di conseguenza collettivo), per contrastare, nelle relazioni affettive del nostro tempo, la sottrazione colpevole al confronto con la “verità” e ogni istanza autoreferenziale e narcisista (dell’uomo e della donna, quindi), per evitarne le nefande conseguenze. Questa opera di contrasto orienta il desiderio di trasformare “il dolore in impegno per l’edificazione di una società e un mondo migliori, che abbiano al centro il rispetto della persona (donna o uomo che sia) e la salvaguardia dei diritti fondamentali di ciascuno, specie quello alla libera e responsabile definizione del proprio progetto di vita”.

La responsabile e libera definizione, personale e collettiva, diventa l’elemento chiave, secondo Cipolla, per dare un senso a “le università e gli studi, gli incontri e confronti a livello internazionale, l’opportunità e il benessere” che si offrono ai giovani in misura maggiore rispetto al passato. Libertà e giustiziarisultano elementi inscindibili, che impongono di declinare l’amore come attenzione alle sofferenze che ci circondano e speranza di trasformazione redentiva delle lacerazioni storiche. La “pace tra i generi”, in sinergia con una più generale pace tra generazioni e popoli, si conquista apprendendo, per grazia ispirata, la capacità di “far dono di sé stessi” per amore dell’altro. 

In sintesi, Giulia Cecchettin non è stata eletta dal Vescovo di Padova a martire della libertà, dell’affrancamento da vincoli affettivi coercitivi, del diritto all’affermazione irrelata del proprio progetto di vita: Giulia, in realtà, è stata vista da Cipolla come vittima sventurata di questa assenza di amore responsabile, aperto alla speranza e alla costruzione condivisa di un futuro. Io ritengo che l’esigenza educativa richiamata dal vescovo di Padova, sia pure in nome di una sempre meno condivisa istanza di “verità” superiore, interroghi anche una coscienza laica (come la mia) che non si accontenti dei luoghi comuni agitati in nome e a difesa delle vittime del fenomeno che chiamiamo femminicidio. 

Le ragioni profonde del  sangue versato non si possono, infatti, cercare solamente nella mai troppo esecrata ossessività amorosa, insicura e claustrofobica, di Filippo Turetta; non può bastare il riflesso condizionato che ha portato fiumi di gente ad esorcizzare nelle parole d’ordine della “libertà” e della “sicurezza” ciò che questo omicidio, insieme ai tanti della galassia “femminicidio”, rivela: la crisi di senso delle relazioni e degli organismi sociali, le contraddizioni del sistema economico e le ricadute esistenziali dell’emancipazione culturale e lavorativa dei soggetti, della crescita personale intesa solo come percorso di affermazione dei propri talenti e della propria originale individualità, nel segno dell’ “autonomia” e del “volersi bene” come dogmi della nostra epoca».

Tu ritieni che il contenuto dell’omelia del vescovo di Padova – non propriamente in sintonia con l’attuale «spirito del tempo» – sia stato veramente colto? Che abbia alimentato delle riflessioni nello spazio pubblico?

«Oggi, l’obiettivo socialmente condiviso sembra non essere quello di costruire legami affettivi, familiari, politici in grado di rendere civile e dignitoso il mondo: pare invece quello di perseguire la soddisfazione autoreferenziale di bisogni multiformi e plurali, fuggendo pastoie relazionali a rischio di tossicità. 

La riflessione pubblica ha rinunciato ad interrogarsi su quanto l’affermazione individuale non risolta in una progettualità umana e politica collettiva finisca per essere funzionale alle necessità e alla costituzione materiale di un sistema economico fondato sul produttivismo forsennato e sul darwinismo sociale. Si fa, allora, fatica ad immaginare condiviso l’invito (implicito) del vescovo Cipolla a leggere il “femminicidio” come l’esito non tanto di rapporti di potere tra generi, quanto di dinamiche affettive instabili, centrifughe e individualistiche, rispetto alle quali nessuno e nessuna può chiamarsi fuori. Una riserva radicale sull’interpretazione corrente del fenomeno confermata, finalmente, dal riferimento alla “fragilità” che “rende corto il respiro della speranza e precaria la tenuta dei nostri amori”. Quel “corto respiro” del nostro organismo sociale che già il Covid ha, inascoltato, rivelato».

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