Negli scritti di Vincenzo Bonandrini la cittadinanza è presente sempre come una realtà a due dimensioni: quella dell’autonomia, dell’apertura alle possibilità della persona, del diritto tutelato e promosso; quella della reciprocità, della comune appartenenza, della responsabilità.
Cittadinanza è vivere una storia comune, insieme e dentro la storia personale; questa connessione tra tempo personale e tempo comune permette il dipanarsi di identità narrative. Queste identità, personali e di popolo, sono capaci di fare spazio all’altro, di valorizzare personalità e diversità. Vivono nell’incontro un’occasione nuova di vita, quasi una nuova nascita. Le identità narrative, in cammino, capaci di racconto sono attente anzitutto a che la vita debole sia difesa perché cresca e si esprima. Perché “nessuno vada perduto”, né dimenticato e lasciato solo.
Bisogna riprendere un viaggio dentro le nostre comunità, nella crisi storica della democrazia
C’è un viaggio da riprendere dentro le nostre comunità, nella crisi storica della democrazia. Bisogna un po’ tornare da capo e riprendere i fili del discorso politico. Ogni perimetrazione dentro fedeltà, storia, organizzazione sarebbe soltanto sopravvivere. Nelle nostre comunità il dolore riappare nella sua ingiustizia, ma più a fondo nella sua ingiustificabilità, nella sua “gratuità”. Non può essere “risolto”, può essere solo umanizzato.
La solitudine riappare come superabile solo in parte. Il futuro si schiaccia sul presente, per contenere le paure, per lasciare sopravvivere, per sentirsi garantiti nell’acquisito.
Il lavoro torna ad essere necessità, bene raro e precario, luogo o di autonomia o di dipendenza ed esclusione. Con poche vie di mezzo. Non più diritto sociale, ma diritto civile: chi “riesce”, “se lo merita”, “ha i numeri”, se lo conquista da solo, il lavoro, sul mercato, attraverso micro-contrattazioni.
Le generazioni vedono rotte le basi materiali del patto che le legava. Pensare al futuro non lega più le generazioni: le contrappone. Decidere di tenere la gente al lavoro per più tempo, vuol dire creare un conflitto con i giovani. Ragionare in termini solo di “diritti acquisiti” nella scarsità di risorse che si preannuncia per domani, vuol dire aprire un altro terreno di conflitto. Se il lavoro diventa bene raro e precario, avremo un altro fronte di conflitto intergenerazionale. Se la capacità di gestire i linguaggi tecnici e le informazioni diventa decisiva, si apre un conflitto tra i giovani che riescono a imparare, a fare velocemente e con competenza, e gli adulti che vivono disagi su questo terreno. Ci sono vantaggi (e svantaggi) per una generazione o per l’altra sui diversi fronti di conflitto. È rotto, comunque, un patto tra le generazioni nelle basi materiali del vivere, del vivere in un territorio.
Oggi (per domani) va ricostruito un patto per la convivenza. Va deciso: non è già dato.
Non è detto che sia più facile costruirlo in sedi locali o su un territorio locale; ad esempio non è detto che sia più facile in sede locale piegare la ricchezza prodotta a fini di solidarietà o di costruzione di destino comune. Non è detto che l’autonomia porti con sé questo. Anzi!
Costruire un progetto per la comunità per aprire un comune destino
Dobbiamo decidere se costruire un progetto per la comunità, col fine di aumentare la facoltà di scelta dei singoli e delle famiglie, oppure col fine di aumentare i legami, le appartenenze: per aprire un comune destino. Un destino che non potrà che essere comune. Dobbiamo decidere se per un progetto per la comunità occorre puntare sul protagonismo delle “solidarietà perimetrate” (che magari non hanno rapporto, cultura o idee per toccare i meccanismi reali dell’economia, della società e delle istituzioni), o se vanno resi protagonisti, insieme a questi, anche altri soggetti. Tutti quelli in cui “la società va oltre se stessa” concretamente: ad esempio nelle scelte professionali e imprenditive eticamente avvertite e responsabili; oppure nei luoghi in cui la gente s’impegna volontariamente, nei luoghi di lavoro organizzato e di servizio, nelle realtà in cui si costruisce servizio flessibile per le persone, competente ed efficiente…
I rapporti sociali possono tornare a essere vissuti, riscoperti come esperienza del ricevere e come offerta di buone possibilità di vivere.
Possono esprimere l’originario evento di vita: il nascere, il “nascere per amore”.
Vanno ripensate le categorie di riferimento delle politiche sociali: esse sono un modo di costruire politica tra società e istituzioni, per aprire un senso di appartenenza narrativa. Non sono più un segmento, pur qualificante, dell’azione politica del solidarismo o del progressismo. Le politiche sociali sono quelle costruite da cittadini responsabili. Queste modalità della cittadinanza si esprimono dentro i tempi quotidiani. Vincenzo Bonandrini le oppone, le distingue nettamente dalle “signorie indivise”.
Il romanzo delle “signorie indivise” può trovare magistrali interpretazioni sulla scena familiare come in quella scolastica, nell’associazione dei volontari e del partito, nel reparto dell’ospedale come nell’istituto universitario, in parrocchia e in comune, negli uffici direttivi come nelle portinerie, nei consigli di amministrazione delle aziende, nei consigli sindacali dei lavoratori, nel consiglio di gabinetto del governo, ne II’esercitare presidenza sui paesi dell’Ovest come sulle repubbliche dell’Est.
Le signorie domandano di essere riconosciute e servite. Risulta loro più difficile riconoscere e servire, diffondere e curare, far crescere e istituire, legittimarsi per il servizio reso alla causa del bene comune, promuovere corresponsabilità, farsi da parte a mandato assolto, lasciare status e privilegio»[1].
Riconoscere e servire, scrive Vincenzo, è la strada per scoprire fecondità e bellezza dell’opera comune, dell’agire condiviso di diversi. Faticoso, certo, ma quanto più umano. Difficile, certo, ma quanto più occasione di conoscenza in profondità delle persone e dell’umano. E delle sue contraddizioni.
«Il cooperare implica accogliere finitezza e limite, comporta presenze individuali non segnate da tratti egemoni. La cooperazione, in un certo senso, domanda separazioni lutti parziali e piccole morti degli obiettivi particolari come dei progetti personali a vantaggio del perseguimento di obiettivi generali. La cooperazione implica consapevolezza di limiti e capacità di sopportare lutti.
Ogni piccolo lutto evoca il nostro morire sentito come catastrofico o auspicabilmente pensato e colto con significati meno abbandonati alla disperazione.
Il Vangelo dei cristiani con un linguaggio che aiuta la meditazione religiosa, dà senso e significato etico-morale alla finitezza di ogni potere umano”
Vincenzo pensa che l’esperienza aclista debba essere prova e fatica di questo “anticipo”. Lo stile di una esperienza associativa democratica oggi deve stare anche nel lasciare spazio, nel collegare, nell’aiutare a conoscere tutte le differenze (le diverse esperienze, i progetti, i servizi…) che accoglie e promuove al suo interno o ai suoi confini.
Questo stile è anche un “fare”, è problema anche organizzativo, operativo, di governo di strutture; anzi, meglio, è problema di formazione/organizzazione.
Le opere “sociali”, le opere acliste, producono identificazioni e storie comuni ma, insieme, chiedono riflessione, cultura, segno, silenzio.
La storia delle Acli, lo “spazio comune” che esse realizzano, si dà per l’interazione tra appartenenze diverse, e magari personali, e per le “energie di legame” che vengono da esse e tra esse attivate, collegate e sostenute. Questo è un loro specifico e concreto modo di contrastare il declino della politica.
Nel pensiero di Vincenzo Bonandrini troviamo le tracce per una politica e un esercizio del potere in prospettiva educativa. In essa non mancano, certo, riferimenti alle dimensioni e alle sfide storiche e planetarie.
Abbiamo conoscenze e saperi di organizzazione degli stati più che dei popoli. Conosciamo logiche, razionalità e modelli di pensiero delle diplomazie politiche, delle formazioni politico-istituzionali a base ideologica, delle alleanze militari. Su di esse si sono legittimate le sovranità nazionali.
Nel tempo presente e ancor di più in quello futuro la transizione epocale vede il passaggio dagli imperi agli stati nazionali e già si prefigura la multiforme geografia dei “popoli della terra”; essendo il cammino accompagnato da uno sviluppo, certo non lineare ma di prospettiva, delle autonomie, delle costruzioni istituzionali rette via via dalle categorie della sussidiarietà, delle federazioni, delle grandi unioni delle cooperazioni. (…)
A questi popoli della terra che auto organizzano le forme di governo dei processi economici e sociali, culturali ed espressivi, politici e istituzionali sono necessarie nuove leadership: