2030 infatti è il termine fissato a Glasgow da oltre 130 leader, che rappresentano oltre il 90% del patrimonio forestale del pianeta, entro il quale arrestare e possibilmente invertire, il processo di graduale perdita delle foreste e di degrado del territorio.
E nel frattempo? Il 17% dell’Amazzonia è già sparito. Si stima che arrivati ad una certa soglia di distruzione, circa ¼ del totale, il degrado diventi irreversibile per processi interni, naturali. A quel punto si prevede che la foresta lasci il posto ad altri ambienti, tipo savana. Ne deriverebbe uno sconvolgimento climatico ed idrologico di proporzioni continentali o planetarie. Non solo, ma cesserebbero tutti quei servizi ecosistemici indispensabili ai popoli che là vivono.
Mentre il tasso di deforestazione medio mondiale diminuisce, grazie a buone politiche di conservazione di molti Paesi, negli ultimi anni quello dell’Amazzonia è aumentato del 30%. Dopo i record di deforestazione del 2008 c’erano stati miglioramenti progressivi, vanificati negli ultimi anni. La politica di Bolsonaro infatti sta annientando la capacità del Brasile di combattere la deforestazione. Viene favorito chi commette crimini ambientali e vengono incoraggiate le violenze verso popoli indigeni e comunità forestali tradizionali.
Ma noi, qui a casa nostra, che cosa c’entriamo in tutto questo? Bevendo una tazzina di caffè difficilmente ci domandiamo da dove venga, a meno che siamo sostenitori convinti del Commercio Equo. E ciò vale per molteplici altri prodotti. In Italia, come in tutta la Comunità Europea, importiamo deforestazione, e non solo dall’Amazzonia. Consumiamo merci che sono state ottenute grazie alla distruzione della foresta (legname pregiato, carne, caffè, soia, olio di palma…).
Come rendere visibile ciò che è invisibile, cioè la filiera di produzione, a partire dai territori d’origine? E come cogliere i nessi coi grandi problemi ecologici e sociali contro i quali magari ci battiamo idealmente? Per il singolo cittadino è molto difficile. Perciò ci sono varie iniziative di certificazione, come il marchio FSC, che garantiscono l’uso conservativo delle foreste ed il mantenimento dei servizi ecosistemici.
Intorno alla Cop26 si è fatto anche un gran parlare della soluzione dei 1000 miliardi di alberi. Se si fanno due conti vuol dire che ad ogni abitante sulla Terra, in media, spetterebbe il compito di piantare circa 130 alberi. In realtà molte organizzazioni già lo fanno, e da vari anni. Ad esempio la Campagna Mosaico Verde, coinvolgendo vari soggetti gestori, ha piantato in Italia 267.000 alberi in 3 anni. Il merito è quello di aver utilizzato aree degradate, oppure aree urbane, nel rispetto dei vincoli paesaggistici. Il clima urbano ne ha beneficiato. Si è anche contribuito al recupero funzionale di boschi esistenti, in via di abbandono gestionale.
Come si vede tante azioni utili ma con numeri che sono briciole, in confronto al progetto dei 1000 miliardi. Ma anche rispetto a ciò che si perde per azione umana o per cause ambientali, come i devastanti incendi degli ultimi anni.
Alcuni, pur essendo d’accordo sulla necessità di piantare alberi, suggeriscono che l’enfasi sui 1000 miliardi come soluzione privilegiata svierebbe l’attenzione dalla necessità pressante di decarbonizzare l’economia, obiettivo sostanzialmente mancato alla conferenza di Glasgow. C’è il rischio di porre in alternativa azioni altrettanto utili. Ad esempio: disponendo di una vasta area inutilizzata e priva di alberi, converrebbe convertirla a bosco o a parco eolico? C’è chi ha fatto i calcoli: non c’è alcun dubbio che sul bilancio della CO2 convenga il parco eolico, naturalmente se fattibile rispetto alla posizione geografica. Ed è pure ovvio che costerebbe di più.
Ma le diverse strategie per contrastare il climate change devono essere viste come alternative? Diminuire le emissioni di CO2 (decarbonizzare, usare energie rinnovabili, aumentare l’efficienza…), incrementare l’assorbimento naturale di CO2 (piantando alberi), cessare la deforestazione… Sono tutte azioni indispensabili. Nessuna da sola basterebbe. L’importante però è fare presto.
Ogni progetto, ogni investimento (perché tutto costa!) dovrebbe però far parte di una visione strategica di autentica conversione dei modelli di sviluppo. Ciò appare ancora molto lontano nei consessi decisionali di alto livello. Basti pensare che nella conferenza di Parigi del 2015 non compare la responsabilità dei combustibili fossili per la crisi ambientale. Oggi si considera un grande successo il fatto che a Glasgow sia diventato finalmente oggetto di negoziato l’abbandono almeno del carbone, anche se rimandato di vari decenni.
Per tornare agli alberi, o meglio alle foreste, che sono molto più che una somma di alberi, la prima azione da fare, ma non la sola, è di ripristinarne e garantirne la rigenerazione naturale. Come ricordava la FAO (vedi precedente articolo) solo la sinergia d’azione coi popoli indigeni, che conoscono il valore della natura, permette di conservarne i molteplici benefici, ambientali e sociali, in una visione di “ecologia integrale”.