
Siamo nella cappella Scrovegni davanti ad una delle sequenze finali della vita di Cristo dipinta da Giotto nei primi mesi del trecento.
Cristo esce da Gerusalemme e si avvia al Calvario uscendo dalla stessa porta che aveva accolto il suo trionfale ingresso.
E’ tra le immagini più intense della pittura italiana; spazio fisico, masse colorate, figure e posture concorrono alla manifestazione dei moti dell’anima, muovendo l’empatia di chi guarda, come solo è possibile nella grande pittura.
La salita al Calvario continua oltre lo spazio della sequenza: le figure che precedono Cristo sono in cammino, impegnate nel passo di salita e il primo personaggio ha il volto nascosto dalla cornice perché la scena deve continuare, dallo spazio virtuale a quello reale di chi guarda.
Lo stesso taglio (diremmo oggi cinematografico) si ripete all’estremo opposta: la folla che ha scelto Barabba si estende oltre il piano che si sfonda nell’assieparsi dei curiosi indifferenti al dramma in atto.
Il vuoto tra corteo e figura curva di Cristo enfatizza la brutalità del bastone e del gesto di chi spinge correlato al moto del personaggio di spalle, che intima di procedere.
Giotto cattura il movimento del corteo nell’attimo drammatico della sosta: Cristo, gravato dal peso della croce, ha visto tra la folla la Madre, si volta e la guarda.
Maria cerca di raggiungerlo, ma viene respinta da uno sgherro dagli occhi cattivi che la strattona; il suo volto – la Mater Dolorosa più umana e meno retorica dell’arte occidentale – si stravolge in smorfia di duplice dolore: fisico per lo strattone, struggente per la negazione del commiato.
Cristo guarda e procede: è il compiersi del “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lu 2.49) e “Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora.” (Gv 2.4)
Con l’incrociarsi dei due sguardi la narrazione sacra diventa dramma umano.
Dagli intonaci degli Scrovegni Giotto artista, regista, esegeta e straordinario predicatore di coinvolgenti sermoni quaresimali.