A questo ingresso del tempo prendiamo una poesia di Vittorio Sereni, voce tra le più importanti e meno conosciute del ‘900 italiano.
Poeta del dubbio e della coerenza, come è stato chiamato, egli unisce una “sospesa perplessa decifrazione della vita” (Isella) a un nucleo compatto di poche essenziali ma sicure certezze riguardo alle scelte etiche, estetiche, sentimentali.
Non troveremo nei suoi versi il tentativo di una presa di possesso sul mondo, che egli non cerca né pretende, piuttosto nella sua scrittura la vita appare “più commemorata che inseguita, più accarezzata (con tenerezza, tremore, ironia) nel suo precipitare, nel suo sparire verso un fondo di cangianti e fruscianti tenebre” (Raboni).
Sereni è stato anche definito un poeta purgatoriale: le sue pagine ci portano in luoghi rarefatti, attutiti, strani, silenziosi, in cui sentiamo echi letterari che richiamano i purgatori di Dante o le rime in morte di Laura. Ma questa sospensione è continuamente attraversata da svelamenti e rivelazioni, da illuminazioni improvvise di verità che riconosciamo familiari al cuore da sempre.
Sono andati via tutti –
blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, saputa: – Non torneranno più –.
Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari… Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.
I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe d’inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.
Non
dubitare, – m’investe della sua forza il mare –
parleranno.
Testo conclusivo della raccolta Gli strumenti umani del 1965. Quattro strofe di quindici versi liberi. Poesia dal linguaggio per nulla cantabile, prosastico, spezzato e disarmonico, a tradurre la percezione di una realtà ambigua e frantumata (i segni grafici d’interpunzione sono marcatori forti che accentuano queste impuntature, soste, esitazioni: punti, trattini, tre punti).
Nella prima strofa la poesia si apre in forma dialogica: l’ignoto interlocutore esterno (la cui voce è diffusa da un ricevitore) esprime in modo sgradevole, superficiale e supponente (“blaterava”, “saputa”) una presunta verità che ricalca la diffusa opinione comune, che esprime in perifrasi quell’impronunciabile evidenza che reca fastidio e paura, inavvicinabile senza sgomento.
Sono andati via tutti, sono morti tutti, non torneranno più.
L’avversativa “ma” che apre la seconda strofa contraddice subito questo comune sentire e segna uno scarto e un passaggio decisivo nella ricerca di chi è andato via.
Oggi, ora, il pellegrino-visitatore approda a un luogo sconosciuto, un “tratto di spiaggia mai prima visitato”, inesplorato e indeterminato, forse oltremondano, contrassegnato dalla presenza di “toppe solari”, segni di luce e calore.
La parola toppa ha vari significati: è il panno che copre un difetto, un buco, uno strappo, una mancanza; qui più propriamente è l’impronta di chi è passato (presenza e assenza allo stesso tempo), ma anche il piccolo pertugio dove infilare la chiave che consente l’ingresso dall’altra parte (del tempo, della storia, della vita).
Segno e luogo d’accesso, traccia di “loro che partiti non erano affatto” e tuttavia rimangono muti, silenziosi e indifferenti.
La terza strofa interpreta questi “segnali” e introduce una riflessione sulla morte.
Non si tratta di un’inesorabile consumazione di vita, momento per momento, ogni giorno.
Quelle “toppe d’inesistenza”, indicate come calce e cenere (termini che valgono come riferimento alla sepoltura e al trattamento dei corpi dei defunti), quella povera polvere-sabbia, sedimento ultimo e destino di un’umanità apparentemente sprecata, è pronta in realtà a farsi movimento e luce.
E il collegamento sonoro che si stabilisce tra la sillaba finale e quella iniziale delle parole calce e cenere, viene replicato nella parola luce, che, insieme al movimento, è indice di vita e calore.
Respiro di vita e movimento costante ed eterno, come quello del mare che prende parola nella quarta strofa.
Immagine di forte e maestosa alterità vitalistica e di immensità trascendente che custodisce una certezza sulla vita e sulla morte. Così che la negazione di un futuro che compare nella pronuncia iniziale (“Non torneranno più”) si rovescia alla fine del testo nell’affermazione di un futuro certo, assertivo, indubitabile (“Parleranno”).
L’orizzonte spirituale ed esistenziale di questa pagina è in continuità con quello politico e sociale caro ad un autore come Fortini, che scrive: “non è sollecitare troppo questo testo se si indica nella sua varia e ora allentata, ora estremamente contratta e dura scansione, una aperta chiamata: alla parte muta e ammutolita di noi stessi, della storia, degli uomini. Chi “parlerà”? Non soltanto il poeta (…) ma già parlano i distanti, i lontani, gli avvenire (…)”.
Poi, quasi constatando dolorosamente l’insufficienza di una propria visione, Fortini conclude: “come una luce polarizzata, la poesia di questi versi infligge una decolorazione spettrale al nostro già invecchiato diagramma di profitti e perdite, indica vuoti nel repertorio dei nostri luoghi morali, sembra accennare altre possibilità d’uso alle nostre esistenze”.
Crediamo infatti che anche la poesia, quando autentica, sappia aiutarci a considerare e soppesare sprechi e vantaggi, luoghi morali e spirituali, a cercare lungo la via tratti sconosciuti e rivelatori mai prima visitati.