Il dipinto perviene in Accademia nel 1796 con il “legato” del conte Giacomo Carrara insieme al patrimonio che segna la fondazione dell’Istituzione.
Nonostante le figure non siano segnate da aureole, il dipinto viene confermato con l’antica titolazione “Sant’Anna, la Vergine e il Bambino” e riferito indubbiamente alla mano di Enea Salmeggia detto il Talpino, importante pittore bergamasco, interprete dei canoni figurativi della controriforma cattolica coniugati nel confidenziale realismo del quotidiano.
Fino alla fine degli anni novanta del novecento il dipinto risultava esposto nella galleria, anche se in posizione defilata, appeso sopra una porta; al momento è conservato nei depositi.
La scena si svolge in un ampio ambiente di cucina; nel grande camino una pietanza cuoce nel paiolo sopra un fuoco vivace; sulla mensola si allineano tegami, vasellame e uno stipo aperto: non sembra una casa ricca.
Nella stanza deve esserci stato da poco un qualche trambusto; uno sgabello è capovolto a terra in mezzo al pavimento e un cagnolino bianco scodinzola e salta intorno al Bambino che dovrebbe invece restare concentrato. La Mamma gli ha chiesto di reggere la matassa di lana, tenerla ben tesa tra le braccia aperte in avanti e seguire i movimenti del filo che lei srotola e riavvolge nel gomitolo. Se non si fa attenzione tutto si aggroviglia e quel filo di lana è prezioso: verrà riutilizzato in caldi panni che lei stessa tesserà.
Ma il cagnolino è troppo interessante; zampetta sul Bambino che si distrae; le braccia vacillano, la tensione della matassa si allenta e il filo si arruffa.
La Mamma, paziente, allunga il braccio, scioglie i nodi e rimettere ordine.
Anche Anna, la nonna, si è distratta: ha sospeso lo sbattere delle uova nella terrina e sorride al cane e al Bambino.
Altri panni aspettano di essere rassettati nel cesto sulla sedia.
Tre indizi danno alla cucina un tono solenne: l’apertura è un arco aperto sulla via, la luce irrompe e rischiara volte e lesene; un calice e un piatto sono apparecchiati sulla tovaglia candida della mensa.
La cucina diventa un luogo liturgico, scena di una sacra rappresentazione dove le azioni, con il fascino del teatro, alludono a dogmi cattolici: Maria “sbroglia matasse”, la materia si “rigenera” come lana sul gomitolo, Anna “protegge” e un “Bambino”, anche se speciale, “cresce e si fortifica”, aiuta la mamma e fa guai col cane come tutti i figli dell’uomo.
Fino a tempi abbastanza recenti i bambini reggevano matasse da dipanare come giocosa prima responsabilizzazione. Oggi matasse arruffate, gomitoli, maglie da disfare e rifare non raccontano molto …cosa potremmo trovare di attuale per dare simboli all’infanzia che cresce…?