In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: “Passiamo all’altra riva”. E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”. Si destò, minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?”.
Ho letto in questi giorni, a seguito delle diverse cronache quotidiane, alcune considerazioni sulla fatica e sul disagio che inevitabilmente sembrano accompagnare l’uomo contemporaneo quando si tratta di avvicinare il tema della morte e del morire, con le sue forme, riti, antiche e nuove consuetudini, rimozioni.
La questione appare immaneggiabile, anche quando, fin dalle nostre prime percezioni e ragionamenti di piccoli, si chiarisce alla coscienza come il luogo inevitabile e necessario da cui guardare la vita, essendone, in qualche modo e paradossalmente, sostanza e condizione (resta evidente che, per chi cerca la fede, il primo luogo da cui guardare la vita è il vangelo, la buona notizia sulla vita e sulla morte).
La cautela e l’imbarazzo che accompagnano l’argomento sono comprensibili: non credo che lo si scansi per insipienza o superficialità ma per una sorta di necessità di “sopravvivenza”, istintiva o consapevole che sia. Certo, poco alla volta è cambiato il panorama sociale, culturale, spirituale, lo sfondo del mondo terreno e ultraterreno.
Pensiero scomodo, sgomentante, che per lo più si tocca da lontano, da sani, da sufficientemente giovani, da ragionatori teorici e distanti, mancando e fallendo così la verità dell’incontro.
Condivido alcune riflessioni che ho proposto tempo addietro in una serata a Redona in cui presentavo i miei disegni.
Per chi lo ha frequentato risuoneranno in queste note alcune intonazioni e parole di don Sergio Colombo, di cui ricorre il decennale della morte. Un modo per ricordare con crescente gratitudine l’amico carissimo e sapiente.
Quasi dieci anni fa ho presentato al museo Bernareggi una mostra che prendeva spunto dal libro di Giona. Più precisamente da quella preghiera e invocazione che viene dal fondo dell’abisso, dentro la prova della tempesta e della morte.
Prima di trovare la riva dopo la grande prova, nel silenzio e nel buio profondo di quell’esperienza estrema, il profeta prega con parole simili a quelle che troviamo in tanti salmi:
“Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare
e le correnti mi hanno circondato;
tutti i tuoi flutti e le tue onde
sono passati sopra di me.
…
Le acque mi hanno sommerso fino alla gola,
l’abisso mi ha avvolto,
l’alga si è avvinta al mio capo.
Sono sceso alle radici dei monti,
la terra ha chiuso le sue spranghe
dietro a me per sempre.
Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita
Signore mio Dio.”
Anche nel racconto di Giona succede che il profeta, incredibilmente, durante la tempesta dorma (come fa Gesù nel brano di Vangelo di Marco). Egli, sceso nella stiva e nella profondità della nave, viene svegliato dai compagni di viaggio spaventati e stupiti di questo suo sonno: com’è possibile dormire durante la tempesta?
Questo Vangelo tocca il cuore del discorso: nel racconto troviamo una domanda che colpisce subito: “Maestro, non t’importa che moriamo?” [si traduce ora: “non t’importa che siamo perduti?”].
Una domanda che tutti abbiamo dentro di noi, anche quando non la facciamo così, ad alta voce.
Al Signore interessa davvero della nostra vita e della nostra morte? Ci sembra infatti che, proprio quando serve, il Signore invece taccia, dorma, non ci sia per noi, non ci aiuti…
Cosa racconta questa burrasca sul mare, questo miracolo di Gesù che, richiamato dal sonno dalla paura dei discepoli atterriti, comanda la grande bufera, sgrida il vento, ordina al mare di tacere?
Gesù ripete il gesto del Creatore, comanda, ordina e dispone gli elementi (le acque, il mare, il vento…).
Evidentemente questa non è la narrazione di fatti avvenuti una certa sera: questo miracolo è un segno e il racconto è una parabola. Lo rivelano le parole all’inizio: “In quello stesso giorno, fattasi sera (c’è la sera sullo sfondo, il declinare del tempo), Gesù dice loro: “Passiamo all’altra riva”.
È la parabola, cioè, del passaggio da questa vita, è la figura della Pasqua di Gesù e il racconto della traversata è insieme l’immagine della nostra vita invitata a seguire la vicenda di Gesù: anche lui è andato negli abissi della morte, attraversando il mare terribile scatenato intorno a lui. La Passione del Figlio è questo scatenarsi della tempesta, in Gesù anche Dio ha subito l’assalto delle potenze della morte.
Ma gli uomini di fede che hanno scritto questa pagina di Vangelo vogliono ricordare le promesse di Dio, la sua grazia che ha posto un limite davanti a questo assalto angosciante e un argine sopra le acque della morte.
Tutta la Bibbia contiene questo invito a ricordare: nella notte di Pasqua riascoltiamo sempre il grande racconto di Dio sovrano degli elementi che pone un limite e separa le acque nella Creazione (Genesi), pone loro un argine perché il popolo traversi all’asciutto dove prima c’era il mare, e non venga travolto, e non muoia (Esodo)…
Chi è stato vicino a Gesù e alla luce della fede rilegge la Pasqua (la sua morte e la sua Pasqua), scrive e ci dice che il limite posto da Dio all’inizio è quel limite ultimo e definitivo posto all’assalto della morte, che non può tenere prigioniero il Figlio, e con lui ogni uomo. Perché Dio è il Dio dei vivi e non dei morti, come ricorda Gesù parlando proprio della Resurrezione.
Questa è la promessa rivolta anche a noi, l’invito a non avere paura, a fidarci: “Perché siete paurosi? Non avete ancora fede?”
Sappiamo infatti come succede: noi siamo divisi tra la paura e la fede.
Ci sono momenti in cui la vita ci sostiene, ci regge, ci porta, ci rallegra, tante volte. E allora ci sentiamo forti, sicuri.
E poi altri momenti, come quella sera, in cui sentiamo la precarietà e fragilità di tutti gli appigli, e pare di affondare. Quello che ci dava gusto, le persone, le cose, la natura e il mondo intero sono ora distanti o indifferenti; quello che di giorno è solido e affidabile, quando arriva la sera, non lo è più, e sembra di andare giù.
Immagino che per chi muore sia così: in momenti che sono insieme di paura e lucidità si sente come un’ingiustizia definitiva quella di essere irrimediabilmente separati dagli altri; gli altri non sono più con te, come te, anche se dicono che ti aiutano, anche se ti vogliono bene, ti stanno abbandonando. Non per cattiveria, certo, ma perché la morte è così: ti strappa via…
E l’aspetto più drammatico e vero di questo Vangelo è che la prova non si può scansare, come si vorrebbe, e consiste proprio nel fatto che Dio non ci aiuterà. È così: non ci aiuterà; anche noi dovremo fare quella domanda: non t’importa nulla che io muoia? Anche sulla nostra barca Dio dorme.
Anche Gesù, nella sua sera, ha conosciuto quel silenzio: “Perché mi abbandoni?”
Silenzio che per noi è assoluto: Dio lascia il mondo tutto all’uomo e aspetta la sua libertà. Aspetta che da quel silenzio l’uomo lo invochi e si affidi. Come il Figlio: “Nelle tue mani…”.
L’invocazione a Dio può uscire solo dal fondo abissale di quel silenzio… “Signore salvami!”
Come accade per Pietro che affonda nella notte sul mare, come per Giona, da quella profondità tremenda cercheremo le parole della fede per vincere la paura.
Io lo scrivo qui ora, che sto bene… poi quando sarà il momento non so… so che sarà molto impegnativo.
Forse accennare a queste cose dà un po’ di sgomento, forse sembrano pensieri lugubri. Credo sia invece la vertigine della fede, la quale, se non si misura con questo pensiero e questa prova, non serve, proprio non ci può servire a vivere.
Occorre pensare a questo passaggio, coltivando la fiducia in Dio secondo l’invito di Gesù a non avere paura e a guardare la vita come cosa buona (molto buona, come dice Genesi).
Per aiutarci abbiamo infatti le promesse che la vita ci fa, tutti i giorni, perché è lì che Dio parla, dove ci sono gli uomini. Le promesse che vengono dai legami, dalle amicizie, dagli incontri. Mi capita di dire qualche volta agli amici che quello che mi incoraggia e dà fiducia è soprattutto incontrare qualcuno che mi mostra come si possa davvero essere uomini in modo buono, bello (detto molto semplicemente e banalmente), qualcuno che mi aiuta quindi a pensare bene della vita, anche della mia, così mancante.
Trascrivo la parte conclusiva di un’omelia di don Sergio, di qualche anno fa:
“Facciamoci un augurio questa sera, facciamo a tutti l’augurio che nel momento in cui la nostra barca andrà giù, che sia possibile, in questo momento, proprio perché ci siamo nutriti di amicizia, di forza, di solidarietà, di gusto per la vita, che riusciamo, anche in quel momento, a fidarci… chiamando Dio, dicendo: “Signore salvami!”, e che sia possibile, in quel momento, che il nostro orecchio non sia stato chiuso dalla paura delle onde, ma riesca ad ascoltare la voce di Dio:
“Dall’alto il Signore ha steso la sua mano, mi ha preso
e mi ha sollevato dalle acque”.
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Maria Grazia Capello