L’ultimo quadro di Lorenzo Lotto è La Presentazione al Tempio (1555 circa), realizzato dal pittore dopo i settant’anni quando, al termine del suo lungo viaggiare, era ospite come oblato nella Santa Casa di Loreto. L’opera si trova ora nel Museo dell’Antico Tesoro proprio a Loreto, nelle Marche.
Il poeta Francesco Scarabicchi (Ancona, 1951-2021) ha dedicato all’artista, e in particolare a questo ultimo lavoro, un piccolo libro di poesie: “Con ogni mio saper e diligentia”, con il sottotitolo: stanze per Lorenzo Lotto.
La raccolta è infatti legata in stanze alla maniera di un poemetto e prende il titolo da una frase contenuta nel Libro di spese diverse del pittore.
Il poeta si è certamente immedesimato nel destino di un artista amato fin dall’adolescenza e definito “solitario e febbrile”: l’accostamento al pittore diventa sguardo alla propria stessa vita, a un lavoro silenzioso costruito nel raccoglimento interiore, con la rinuncia al troppo e al vano, in un percorso di estrema spoliazione.
Lo storico dell’arte Pietro Zampetti parla di Lotto come di “un’anima in pena” dalla “vita interiore in costante tensione”; i versi di Scarabicchi confermano – per il pittore e per sé stesso – il destino e la scelta di un sostanziale isolamento, la ricerca ostinata di immagini e parole autentiche, la finale definitiva compiutezza di una resa, fedele alla propria vocazione e alla vita.
La Presentazione al Tempio è un lavoro lasciato interrotto, forse per la malattia e la morte del pittore. L’impianto compositivo è complesso, diviso su due diversi livelli e piani: quello inferiore e avanzato del tempio ebraico di Salomone, affollato dai protagonisti della cerimonia religiosa; quello superiore, più arretrato e vuoto, è quello della basilica mariana in cui si scorge sulla destra un vecchio uomo barbuto che nell’ombra si sporge, affacciato a contemplare la scena e noi che la guardiamo.
La figura, appena visibile, è quella dello stesso artista. Egli sembra suggerire che l’antica vicenda raffigurata è sempre viva con la sua promessa e, come per Simeone e Anna nel vangelo di Luca, è vivo anche per lui, arrivato al limitare estremo del proprio tempo, il desiderio di trovare e riconoscere presente e ultima la salvezza della vita e del mondo.
Perché così, perché l’abisso d’ombra
che il cuore annega oltre la porta e il muro,
oscuro mondo che all’estremo vedo,
se appena un po’ mi sporgo ad incontrarvi
da quest’anta di scena, dalla soglia
della mia vita che s’appresta a spegnersi?
Vi guardo dal ciglio della storia,
dal limite concesso all’invecchiare,
dal mio silenzio che non ho salvato
per un’offerta al dio che mi trascura
in questa casa dove il vento volta.
Negli ultimi tempi la vista del pittore era assai declinante e la stesura del dipinto appare un poco incerta. I toni bassi e smorzati, struggenti, definiscono la luce dimessa di una sera che sta scendendo sopra un mondo consumato, già contemplato con gli occhi del commiato e dell’attesa sconosciuta, in una sospensione trepida e smarrita.
Prima d’inoltrarsi nel buio, l’artista può forse sentirsi finalmente a contatto con la luce, i colori e le forme del mondo, tutto ciò che con il suo lavoro ha cercato lungo la vita.
Negli ultimi giorni poveri e silenziosi è sempre il pittore delle cose umane acute e sottili; la sua mano, ora più debole, asseconda ancora il pensiero inquieto e le macerazioni dolorose. Uomo tra gli uomini nella comune finitezza e dignità, nella comune grazia.
L’umano nel divino e quei colori spenti
sono l’ultima incognita che lascio,
la doppia chiesa ch’è tempio e basilica,
tra Simeone e il vecchio che s’affaccia
nel semibuio della scena alta.
Per voi l’enigma di quei piedi umani
su cui poggia la tavola a mensa vuota.
L’eredità che lascio è un testamento
che non ha parole. Senza solennità,
a bassa luce, nell’impreciso gesto che si compie
avviene ciò che narra l’evangelio
e l’ombra dei miei occhi ancora vede,
se immagino quel tempo e me in esso,
cronista che già incespica malfermo,
ma certo d’aver scelto del futuro
la via che guida al mondo che resiste,
la sola che prosegua in tanta notte.
Il titolo della poesia si riferisce alla difficile interpretazione di quegli inspiegabili piedi umani su cui poggia la luminosa mensa vuota al centro della scena. Non sappiamo se è allusione a Cristo, alla sua incarnazione, al suo corpo e al suo sacrificio. Una delle tante sorprese di Lotto.
Né ci soffermiamo sulle figure presenti sulla scena con i loro molteplici gesti: alla sinistra le donne, Maria e il bambino, Simeone e altri due sacerdoti; sulla destra gli uomini e la profetessa Anna, vecchia, curva, rattrappita, stanca, le braccia cadono distese, le mani sono aperte nell’accoglienza o nella resa.
La poesia parla di un’atmosfera senza solennità, come dimessi sono questi giorni di vecchiaia: fiochi gli occhi e meno sicuro il pennello, più faticoso mescolare i colori, ricordare numeri, parole, segni, arrischiarsi a salire le scale…
È l’età nella quale la lunghezza e le ferite del viaggio, con il venir meno delle forze, rischiano di far perdere il gusto della vita e quel senso che s’è cercato lungo tutto il cammino.
È un tempo che chiede insieme distacco e attaccamento, resistenza e resa; la forza di staccarsi dalla vita presente ma non dalla speranza e dal desiderio della vita: diventa più che mai evidente che essa è, per sua natura, cosa futura, cosa promessa, che viene da un altro.
Nei vari passaggi della vita e del suo tempo (infanzia, adolescenza, età adulta), nelle decisioni che portano ad abbandonare qualcosa per scegliere altro, c’è ogni volta un futuro intravisto che in qualche modo si può preparare e costruire. Nella vecchiaia invece non si è più artefici del domani, cui solo ci si consegna come a una promessa.
Le parole del vangelo racchiuso nella vecchiaia sono quelle di Simeone, qui dipinto da Lotto:
Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza…
La fede di Simeone vive il distacco come compimento, i suoi occhi riconoscono quella grazia che gli era stata anticipata dai beni della vita, lo sguardo interiore lo porta ora oltre ciò che gli occhi vedono.
Il difficile compito assegnato alla vecchiaia è la definitiva adozione di quanto vissuto, insieme alla confessione del peccato, della distrazione, della poca fede, smarrimento e paura che tante volte hanno soffocato il viaggio.
Proprio per questa debolezza, soprattutto nel tempo ultimo delle mani malferme e del passo incerto, è grazia saper riconoscere che ogni momento e incontro sono stati una promessa che ha aperto la via e ha chiesto di affidarci, insieme a tutti gli uomini:
…certo d’aver scelto del futuro
la via che guida al mondo che resiste,
la sola che prosegua in tanta notte.
[Riferimenti: Francesco Scarabicchi, Con ogni mio saper e diligentia. Stanze per Lorenzo Lotto, Liberilibri, 2013
Anna Elisa De Gregorio, L’enigma discreto, Poetarum silva, 2016
Comunità Redona n.380, gennaio 2011]