Tra le lievi ondulazioni dei campi tedeschi a 50 chilometri da Colonia sorge un compatto edificio che subito cattura l’attenzione dell’osservatore e del viandante: è la Bruder Klaus Kapelle dell’architetto svizzero Peter Zumthor.
Peter Zumthor, nato nel 1943 a Basilea, architetto e restauratore svizzero, è figura riconosciuta a livello mondiale; nel 2009 gli è stato assegnato il Premio Pritzker, la più importante attestazione al mondo per l’architettura.
Figlio di un ebanista, ha lavorato manualmente fin da piccolo imparando la falegnameria e collaborando, dopo gli studi al Pratt Institute di New York, a molti progetti di restauro a monumenti e edifici storici che gli hanno permesso di conoscere e studiare i materiali, le loro particolarità e relazioni, le caratteristiche tattili e sensoriali in funzione della creazione di superfici e spazi.
Le sue architetture raggiungono esiti di semplice purezza formale e compositiva ma insieme stimolano la riflessione di chi attraversa lo spazio creato e chiedono tempo per assimilare ciò che non si può cogliere con un primo colpo d’occhio d’insieme. L’osservatore attento arriva così a comprendere gradualmente la forma complessiva, le modalità di costruzione, il significato dei piccoli dettagli curatissimi, la grande importanza assegnata sempre al ruolo della luce.
Tra le importanti realizzazioni segnaliamo il suo Studio Zumthor ad Haldenstein, frazione di Coira (dove pure ha progettato la Residenza per anziani), i Bagni termali di Vals, il Padiglione della Svizzera all’Expo 2000 ad Hannover, il Museo diocesano Kolumba a Colonia.
La richiesta di una cappella privata nella regione tedesca dell’Eifel giunge nel 2001, da parte dei coniugi Hermann-Josef e Trude Scheidtweiler, una coppia di agricoltori tedeschi del villaggio di Wachendorf. I committenti non impongono restrizioni all’architetto se non di poter partecipare alla costruzione per abbattere i costi, e di utilizzare, per lo stesso motivo, materiali locali.
Zumthor, che fino ad allora aveva realizzato nel 1988, come unico edificio sacro, la Cappella di san Benedetg a Sumvitg, accetta l’incarico.
La cappella viene dedicata a Bruder Klaus (Fratello Klaus) santo patrono della Svizzera (San Nicolao, in italiano). Contadino e soldato svizzero del XV secolo, all’età di 50 anni decide di dedicarsi alla vita spirituale, conducendo un’esistenza da eremita. Il suo simbolo, che si ritrova all’interno della cappella, è una ruota a sei raggi: dal centro divino si dipartono i raggi della divinità trinitaria e vi ritornano dopo aver raggiunto il cerchio esterno-mondo.
Il processo di ideazione è molto lungo: solamente dopo 6 anni, nel 2007, Peter Zumthor presenterà il progetto definitivo e inizieranno i lavori di costruzione.
Il risultato finale risulta determinato da due fattori che si influenzano a vicenda: lo schizzo e idea progettuale di una tenda-capanna (che il visitatore scopre solo una volta entrato nell’edificio) e il singolarissimo processo costruttivo.
La scelta di costruire la cappella come una grande tenda influirà sia sul carattere irregolare della pianta pentagonale, sia sull’ingresso a forma di triangolo isoscele, chiuso da una porta basculante: il triangolo isoscele è infatti la sezione di base che, ripetuta con altezze e basi diverse, dà origine e modella lo spazio interno.
Inoltre, Zumthor desidera che l’insieme della cappella non si colga direttamente superando la porta (come si accennava, la scoperta e acquisizione dello spazio è lenta e progressiva). Perciò egli non adotta una semplice pianta rettangolare, bensì quella pentagonale, costringendo il fedele-visitatore a svoltare un poco a sinistra prima di giungere nel cuore della cappella.
Il risultato finale, come avviene frequentemente nelle opere di questo architetto-artigiano, non è definito totalmente a priori.
La struttura della tenda è realizzata con 112 tronchi d’albero, provenienti da un bosco di proprietà della coppia di agricoltori. I coniugi, insieme ad alcuni amici e guidati da un capomastro, li tagliano e dispongono a capanna per formare la parte interna del cassero (la struttura lignea in cui è poi versato il calcestruzzo). Questo, alto 12 metri, è stato riempito di calcestruzzo con 24 strati ben distinguibili, ognuno di 50 centimetri e corrispondente a una giornata di lavoro. Anche il calcestruzzo viene “fatto in casa” con la ghiaia proveniente da un fiume della zona, risulta dunque sporco e sono ben visibili le giunture fra i differenti strati.
Una volta gettato il calcestruzzo, per rimuovere il cassero ligneo interno formato dai tronchi che definiscono la tenda, viene acceso un fuoco alimentato e sorvegliato per tre settimane.
La combustione conferisce alle pareti interne della cappella un colore scuro e nero di fuliggine e lascia ben riconoscere nella superficie irregolare della parete le tracce concave dei tronchi utilizzati.
Perché questo legname potesse venir bruciato, era necessario che la cappella non fosse completamente murata nella parte alta, ma dotata, come un camino, di un’apertura per permettere al fumo ed al calore della combustione di fuoriuscire.
Ulteriori canali di deflusso vengono realizzati lungo tutte le pareti della cappella, posizionando 350 tubicini metallici forati ad altezze diverse durante la gettata del calcestruzzo. Al termine del processo di combustione, i fori vengono chiusi con delle perle di cristallo e, insieme all’oculo superiore diventano le scenografiche fonti di luce della cappella: a seconda delle ore del giorno e del tempo atmosferico, la luce entra in modo sempre diverso a modellare le irregolari superfici dentellate della cappella.
La cappella, raggiungibile a piedi attraverso i campi, si mostra come un alto volume compatto, di forma irregolare pentagonale, ed emerge dalla terra senza legami apparenti con il paesaggio circostante. In realtà, come detto, i tronchi che hanno formato il cassero provengono da un bosco vicino, il calcestruzzo è realizzato con ghiaia recuperata dalla zona e alla costruzione partecipano amici e conoscenti della coppia di committenti.
Un basamento in calcestruzzo corre lungo tre dei cinque lati esterni, disposto in modo che uno dei tre lati sia sempre in ombra. Esso si offre quindi come panca sia per il fedele, che può fruire della cappella anche all’esterno, stimolato dall’immersione nella natura, sia per l’agricoltore che può trovare ombra e riposo dal lavoro nei campi. Viene da pensare alle “panche di via” nei palazzi rinascimentali fiorentini (es. Palazzo Rucellai); la tradizione classica reinterpretata è del resto sempre presente nelle architetture di Zumthor.
La porta basculante attraverso la quale si accede alla cappella, chiude l’apertura triangolare senza sigillarla: anche con la porta chiusa, la luce filtra attraverso lo spazio compreso tra porta e muro, disegnando una traccia luminosa sul terreno.
Una volta oltrepassato l’ingresso, lo spazio non si svela immediatamente; colui che entra è invitato a una scoperta personale del luogo sacro. Dopo un breve restringimento si gira verso sinistra e nella penombra resa ancora più buia dal contrasto fra il sole accecante dei campi e l’oscurità interna, si scorgono poco alla volta luci puntiformi distribuite in modo irregolare sulle pareti, come un cielo stellato. Sono i tubicini chiusi con le perle di cristallo, di cui si è detto.
Completata la breve svolta, si rivela lo spazio interno con il grande oculo “a goccia” sul soffitto che illumina il cuore della cappella. Le linee delle pareti, che non sono altro che gli interstizi fra i tronchi in cui il cemento si è infilato, convergono verso l’oculo, enfatizzando un senso verticale e ascensionale. Anche in questo caso, il riferimento all’oculo del Pantheon ci dice il legame di Zumthor con la classicità, ritradotta in modo del tutto personale.
Le pareti sono irregolari e ruvide come le superfici dei tronchi e nere di fuliggine.
Al centro del pavimento uno strato ribassato di piombo richiama la goccia dell’oculo che gli corrisponde 12 metri sopra: esso raccoglie l’acqua entrata dall’alto, che nelle giornate di pioggia scorre e sgocciola con la sua lieve musica anche lungo l’impronta cementificata dei legni e viene drenata dalla ghiaia che pavimenta il resto della cappella.
Il piombo è un materiale usato frequentemente dagli artisti contemporanei soprattutto d’area nordica (Kiefer): rimando alchemico alla trasformazione della materia, dei corpi, della vita.
L’arredo sacro è molto semplice: un bronzo raffigurante San Nicolao, una croce realizzata con tondini del cemento armato (piegati e saldati insieme), il simbolo della ruota del santo, una panca e un porta candele (una scatola di ferro agganciata al muro e riempita di terra e ghiaia).
Ci pare evidente l’impronta “protestante” di questo edificio severo, ascetico, concentrato. In questa cappella, Peter Zumthor rende silenziose le sue idee per far parlare la luce, i materiali, i gesti e il lavoro di chi l’ha eretta.
Un’intuizione ispirata ha portato a costruire e modellare il corpo di un edificio con la consumazione del fuoco. E la scelta, con tutti i suoi profondi rimandi biblici e antropologici, rende questo luogo intimo e spirituale, pervaso da una indefinibile intensità che personalmente accostiamo anche a sentimenti di timore e di inquietudine (il roveto ardente, l’offerta sacrificale, l’incendio portato dal Vangelo, il fuoco dello spirito…). Pensieri che non ci paiono fuori luogo in un edificio sacro, che raccoglie la creazione dell’ideatore, le fatiche dei contadini che l’hanno commissionata e costruita, i passi di coloro (viaggiatori e pellegrini) che sostando all’esterno e poi entrando cercano l’ospite divino della loro vita.
(Nota: per il presente articolo si è fatto ampio riferimento al testo di Valentina Maini: Bruder Klaus Kapelle: la Cappella di San Nicolao di Peter Zumthor
http://sacrark.altervista.org/peter-zumthor-bruder-klaus-kapelle/ )