Abitare il monte. Le beatitudini

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Un dipinto di Mario Sironi.
La guerra e i drammi che agitano gli uomini.
Le beatitudini: è necessario “salire sul monte”

L’uomo, tutto l’umano

Ho iniziato qualcosa, ma è difficile quest’arte. È un problema complesso. Anche un artista lontano dalla fede potrebbe, forse, fare dell’arte cristiana. Ma bisogna che capisca l’uomo…tutto l’uomo.

Mario Sironi, L’apologo. Cristo e gli apostoli, 1944, olio su masonite, cm 52-x-68

È un pensiero del pittore Mario Sironi, che negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale affronta temi religiosi realizzando opere severe, cariche di tensione drammatica.

Questo dipinto, che egli intitola L’apologo (noto anche come Cristo e gli apostoli), presenta, in una costruzione serrata, una composizione densa di figure compresse nello spazio. Essenziale e povera fin nel colore scuro, grigio, terroso, è ravvivata solo da rapide pennellate chiare a definire i volti, i panneggi, i volumi.

Sulla destra attraversa verticalmente l’intero spazio del dipinto la figura di colui che parla e alza la mano con gesto lento e solenne. A lui si rivolgono i corpi e gli sguardi di sei persone, a cominciare dalla donna in piedi a sinistra (contrappunto e pendant dell’oratore) per arrivare ai due uomini accovacciati ai suoi piedi.

Volti affranti, supplici, assorti nell’ascolto, segnati dalla malattia o da presentimenti di morte: povera rappresentanza dell’umanità intera che si stringe intorno a colui cui chiede la salvezza.

Sullo sfondo, la guerra

La guerra era sfondo e accompagnava la stesura di questo dipinto intenso e privo di retorica: è facile pensare all’uomo che si interroga di fronte alla tragedia e che cerca un senso quando la storia sembra averlo smarrito o non averlo affatto.

La composizione è come un unico blocco massiccio senza spazi vuoti, i volumi vigorosi rimandano a Giotto e alla scultura romanica, i volti spettrali ai personaggi tragici e sconfitti di Rouault.

Negli stessi anni dipinti simili presentano figure sopraffatte dal senso di colpa, piegate da angoscioso pentimento, chiuse in un isolamento disperato ().

Come è stato notato, “la figura eretta ed eroica, che Sironi aveva dipinto tante volte negli anni trenta, si muta in figura piegata, prostrata, umiliata” (Elena Pontiggia).

Quelli che sono nel pianto, i miti, i puri di cuore…

Questa immagine potente ci offre lo spunto per una riflessione sui tratti del discepolo quali emergono dalle Beatitudini e poi da tutto il discorso della montagna che il vangelo di Matteo traccia nei capitoli dal 5 al 7.

Come gli altri vangeli, anche quello di Matteo è una raccolta di materiali raggruppati per tema: parabole, miracoli, la Passione… In questa sezione si trovano i grandi discorsi nei quali la comunità cristiana raccoglie ciò che ha compreso da Gesù.

All’inizio del racconto appare quello snodo e movimento radicale di distinzione che Gesù compie a un certo punto del suo percorso, non rivolgendosi più alle folle ma ai discepoli, che diventano destinatari delle sue parole: “… vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo…”.

La figura di Gesù che parla sul monte è l’immagine del nuovo Mosè che proclama la legge nuova che compie quella antica, la parola della prima alleanza. Gesù non abolisce il grande riferimento di Israele, la Legge, ma la vuole scrivere nel cuore perché essa sia vera e perfetta: è il cuore dell’uomo il destinatario della parola di Dio.

Il racconto suggerisce il movimento spirituale per accogliere davvero la parola e per essere discepoli: occorre salire sul monte, serve cioè una decisione intima, personale, conseguenza dell’ascolto interiore e del discernimento.

È trasformata radicalmente l’esteriorità legalistica del precetto scritto sulla pietra.

E da lì viene la declinazione e traduzione dei comandamenti alla loro radice come esplicitata da Gesù: “Avete inteso che fu detto… ma io vi dico…”

I sottili modi quotidiani di mentire e di uccidere

Ci sono infatti molti modi sottili e quotidiani di uccidere e mentire, di essere ingiusti, vanitosi, adulteri, di cercare con prepotenza il successo e il potere. L’invito di Gesù contesta quell’esteriorità – cifra distintiva anche della cultura contemporanea – che sfigura e corrompe le relazioni, togliendo loro umanità e verità (ce lo racconta già tante volte il nostro ambito domestico, anche senza allargare troppo l’orizzonte alla politica, alla cultura e ai media, alla religione…).

La Lettera agli Ebrei, che accompagna le liturgie di questi giorni feriali, indica il sacrificio perfetto, il vero culto e il vero sacerdozio: Gesù ha portato la sua tenda, il cuore, l’intera vita, nel santuario di Dio.

Per essere discepoli occorre allora salire insieme a lui, entrare nella casa di Dio, nel cuore, e non fare come il popolo che ha aspettato Mosè ai piedi del monte, lasciandolo solo nel suo colloquio davanti al Signore e accontentandosi di un codice formale scritto sulla pietra.

Chi può essere l’ospite del Signore, domanda il salmo: “Signore chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sul tuo santo monte?”.

Il dipinto di Sironi ci mostra un’umanità inquieta e stanca, bisognosa di salvezza, che cerca la casa sicura della propria vita, che cerca il Signore, in ascolto.

Sono loro i veri discepoli? I poveri in spirito, gli afflitti, i miti, i cercatori di giustizia, misericordiosi, puri di cuore, operatori di pace, perseguitati…

1 Comment

  1. fiorenza cattaneo ha detto:

    Sono proprio loro i veri discepoli…

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