
Oggi è S. Alessandro. La mia Chiesa di Bergamo è in festa. Inchiodato in un letto dell’ospedale, tra sudori e affanni, con tre compagni di camera e di sventura, nonostante le cure competenti da cui sono circondato e del controllo dei miei sentimenti, mi sento – a momenti – trascinato nei luoghi di desolazione e di paura che di solito giacciono silenziosi e nascosti nei giorni normali della nostra vita.
Luoghi dove si è trascinati come naufraghi, e nei quali ciò che resta è un’invocazione di soccorso, una mano tesa che cerca aiuto e speranza. I nostri discorsi in genere cercano di evitare queste regioni che sono difficili da abitare; preferiscono fermarsi su terreni più praticabili: si cerca di razionalizzare, di ridurre la malattia a un processo in cui qualcosa si è guastato nel nostro corpo e viene fortunatamente riparato. “È andato tutto bene”. Ma le profondità e il mistero di ciò che capita a noi uomini – la tragica fragilità della nostra traversata e il bisogno di salvezza – non possono sempre essere evitati: hanno bisogno, almeno in qualche momento, di essere ospitati in noi.
I fantasmi e i pensieri di paura e di sconforto (quanto poco basta per essere trascinati in quest’altro mondo!) non riescono a cancellare un senso profondo di grazia che hanno questi momenti: la grazia di sentirsi – senza confini – solidali con le fatiche e le sofferenze di questi miei compagni di letto e, attraverso loro, di tutti gli uomini di questo mondo; e, insieme, solidali nell’attesa di una Dolcezza silenziosa e immensa che, passando nei nostri legami di carne, potrebbe salvarci.
Guardando e sentendo cosa passa nel mio corpo e nel corpo di questi miei amici trovati in un reparto di chirurgia organizzato ed efficiente, non si tratta solo di un “intervento” (peraltro quasi sicuramente dall’esito felice per tutti noi). L’intervento – provvidenziale e benefico del resto – è stato un’aggressione che ci ha impauriti. La tecnica è in qualche modo sempre violenza. Le varie parti del nostro corpo sono state messe in allarme, tagliate, separate; si sono disperse, date alla fuga, dissociate dalla loro precedente solidarietà. Adesso bisogna richiamarle, raccoglierle, mendicare nuovamente da loro il loro servizio. Bisogna reimparare a respirare e a parlare; a bere e a mangiare, a digerire, a urinare e ad andar di corpo, a dormire e a riposare (come è difficile riaffidarsi di nuovo al sonno dopo una simile aggressione!). Ed ecco che, lentamente, sorprendentemente, ritorna il miracolo della vita: l’alleanza del mio io con il mio corpo; il legame vivo con gli altri, quel legame che quando tutto sembrava venir meno è rimasto, coraggiosamente, come l’ultimo baluardo della speranza. La guarigione ha proprio il sapore di una salvezza: di una nuova nascita.
Forse che Dio era lì, e noi – come sempre – non lo sapevamo. La sua presenza non è mai scontata: va attesa e cercata. Il suo nome non va pronunciato troppo in fretta; non va confessato, e magari esibito, prima della traversata. Ma se qualcuno può essere invocato come “Dio”, se qualcuno dice di aver avuto notizia certa su di lui, deve essere lì, non può essere che lì: sopra quell’abisso nel quale l’uomo sente di sprofondare e viene raggiunto da una voce – umana, di carne – di fiducia e di speranza. Il vangelo non può che passare di lì. Adesso ne sono ancora più sicuro. Tutta la sua potenza più tenace e preziosa Dio la sta spendendo per avvicinarsi ad ogni uomo e per accompagnare la sua traversata dell’abisso, nella fede.
In questa solidarietà con questi compagni di reparto – espressa nel pigiama, nei respiratori, negli aghi e nelle cannule, nelle ferite e nei sospiri della notte – e in questo prendersi cura di noi dei medici e degli infermieri, degli amici e dei parenti, sento tutta la fragile grazia del mio essere uomo. E la gioia di essere cristiano! Come sono stato fortunato a incontrare e conoscere Gesù e il suo vangelo che ci autorizza, in nome di Dio, a credere in questa fede che tiene in piedi la vita degli uomini anche nei momenti più difficili. Anche la mia piccola storia di prete, alla luce di questa divina compassione che lega tutti gli uomini in indissolubile fraternità, mi ritorna come un regalo: quello, anche, di aver ricevuto il compito di sostenere e di diffondere un po’ di fede tra i miei amici, di dare una mano alle persone che incontro a credere alla loro avventura di essere uomini.
Qualche centinaio di metri più in là, nelle vie del centro, si sta svolgendo la festa patronale. Mi sfiora la tentazione di considerarla una cosa totalmente marginale: un mix superficiale di folclore civico e di ingenuo clericalismo, troppo lontano dalle cose estreme che sto sentendo. Poi, nei momenti in cui riesco a non mettere al centro solo la mia situazione e ad ammettere che gli altri non sono tutti malati e la vita prosegue nelle sue molteplici forme, mi riesce di condividere anche questa festa della mia Chiesa e della mia città e a leggerne con lucidità alcuni aspetti.
La sacra rievocazione storica del martirio di S. Alessandro che si conclude con la celebrazione liturgica attorno al Vescovo certo ha qualcosa di artefatto. Si sa che le società umane, civili e religiose, hanno le loro impalcature, i loro simboli, i loro riti che rischiano di rimare vuoti se non sono l’espressione di storie e di speranze vere e comuni.
E però, insieme, mi prende la commozione per la grande storia cristiana di questa mia città: un’impiantazione profonda, radicata, del cristianesimo in questo angolo di terra; una storia sorprendente di evangelizzazione, di catechesi, di cristianizzazione delle forme di vita; uno straordinario lavoro di solidarietà, di cultura, di formazione, di sostegno all’avventura umana di queste popolazioni. Dopo secoli di questa storia cristiana anche oggi esiste a Bergamo una Chiesa robusta, composta di donne e uomini, bambini, giovani e vecchi attorno al Vescovo e a centinaia di presbiteri: comunità cristiane numerose, ben presenti sul territorio, partecipi della vita civile e sociale dei bergamaschi.
La festa di quest’anno poi vive anche un evento particolare: il ritrovamento, sotto il pavimento della Cattedrale, di segni preziosi della presenza a Bergamo del cristianesimo del I millennio. Il recupero intelligente che è stato fatto di questi scavi sarà uno stimolo anche per il nostro presente e per la vicenda del cristianesimo in questi nostri tempi nuovi. La cosa arriva anche a me come una piccola gratificazione: con alcuni amici stiamo vivendo abbastanza da vicino questa umile scoperta archeologica come un incoraggiamento a tener viva tra noi la necessità di una nuova evangelizzazione delle nostre terre. In questa passione ci troviamo a incrociare tanti altri cristiani con sensibilità diverse: lo stesso attaccamento al vangelo e alla fede dà luogo a valutazioni diverse sulle forme che il vangelo dovrebbe assumere e su come dovrebbe presentarsi per parlare più efficacemente a questa nostra società secolarizzata e, per molti versi post-cristiana.
Penso che molti amici anche della mia comunità si sorprenderebbero nel cogliere una certa mia sofferenza per queste celebrazioni patronali che restano così lontane da quel luogo (e da quel modo) in cui io sento – anche in questo letto d’ospedale – passare il vangelo: il luogo della Divina Compassione, della Divina Consolazione per la fatica del vivere e del credere alla promessa della vita. Sono sempre più convinto che anche le nostre espressioni religiose, le diverse forme che diamo al nostro cristianesimo, per restare cristiane, per poter indicare il vangelo di Gesù, debbano sempre partire da quel luogo silenzioso dove Dio passa nella storia degli uomini – di qualsiasi uomo che incontri – nella forma di una Tenerezza che non ha confini né condizioni nei confronti della “carne” dell’uomo.
Certo che anche i cristiani, come tutti, possono avere le loro celebrazioni. Certo che la loro fede esige di nutrirsi anche di gesti religiosi; ma essa vive soprattutto di una carità, di una fraternità universale, nella dedizione alla causa dell’uomo in cui si testimonia la fede nel Dio che Gesù ci ha fatto conoscere. E perciò occorre vigilare perché anche le forme religiose della fede cristiana siano misurate e alimentate da questo vangelo. Le logiche celebrative delle istituzioni civili e delle stesse istituzioni ecclesiastiche sono inevitabili, ma occorre cercarne una sobria autenticità; e, in qualche modo, occorre sempre un po’ diffidarne. La gente, d’altra parte, ha bisogno di feste e di evasioni e, soprattutto, di rassicurazione e di protezione nei confronti delle difficoltà della vita; e la religione è un soccorso importante nella fatica del vivere. La dimensione “popolare” del cristianesimo si avvale molto di questa sua forza di rassicurazione e protezione; ed è una ricchezza del nostro cristianesimo bergamasco, nella quale è racchiuso un patrimonio di fede e di umanità. Ma chiede anch’essa di essere aiutata a convertirsi al vangelo e alle sue poste in gioco umane ed esistenziali.
La nostra festa di S. Alessandro, che si sta svolgendo lì, al centro della città, mescolando aspetti folcloristici, culturali, civici, religiosi, rituali, qualche rischio di confusione lo corre. Le cronache del nostro giornale cattolico cittadino, che dà voce alla sensibilità diffusa, conferma questo pericolo.
Per esempio: l’idea di una sacra rappresentazione del martirio di S. Alessandro ci può stare. Ma occorrerebbe distinguere più nettamente il suo carattere di “fiction” dal riconoscimento serio – scientifico, rispettoso dell’uomo “moderno” – del carattere totalmente leggendario del S. Alessandro soldato romano; e nello stesso tempo valorizzare la storia complessa e affascinante del succedersi a Bergamo del culto di S. Vincenzo e di quello arrivato dopo di S. Alessandro. Proprio per questo la sacra rappresentazione e le iniziative cittadine sono di un ordine incomparabile con la scoperta umile e potente degli scavi fatti sotto il Duomo. Così come la celebrazione liturgica attorno al Vescovo è un’espressione di fede della comunità cristiana e del suo desiderio di convertirsi al vangelo di Gesù.
Distinguere e conciliare le esigenze storico-critiche della cultura moderna, la complessità delle tracce della tradizione, la vivacità delle devozioni popolari e delle leggende, le esigenze attuali di un’evangelizzazione che proponga una conversione e una testimonianza difficile (martirio) al vangelo, è un modo di dar forma a un cristianesimo coerente con le attese e le sfide del nostro tempo. Con queste attenzioni occorrerebbe anche – proprio nell’occasione in cui la città e la comunità cristiana di questa città dichiarano la loro solidarietà nella costruzione della città umana – tener maggiormente distinti gli aspetti civili e quelli ecclesiali della festa patronale.
Tale ricorrenza potrebbe essere l’occasione nella quale la Chiesa e la città fanno un punto sul loro ruolo e sui compiti specifici che appartengono a ciascuna di esse. E le celebrazioni comuni potrebbero essere l’espressione di un effettivo scambio tra la Chiesa e la città: dove, nella ricerca di mettere in luce i problemi di fondo della comune edificazione, la Chiesa è aiutata a prendere coscienza del servizio che i cristiani intendono dare a tutti, e la città riconosce il contributo che le comunità cristiane danno alla comune costruzione sociale.
Sono sorpreso che queste considerazioni – apparentemente di cronaca minuta – mi raggiungano quaggiù nell’abisso, dove sembra esserci posto solo per ciò che è essenziale, per ciò che alla fine resta. Piacevolmente sorpreso! Vuol dire che l’avventura che sto vivendo non mi ha del tutto portato via da ciò che continua a succedere ai miei amici lassù sulla terra, non mi ha strappato a ciò che fino a qualche giorno fa vivevo anch’io. È un segno che sto risalendo, che sto tornando. E che questo luogo estremo in cui sono scivolato mi rimanda nel mondo con le stesse passioni e gli stessi sogni che per anni ho coltivato. A me è capitato di trovarmi nel mondo con il compito di fare il prete in una minuscola comunità cristiana della Chiesa di Bergamo (quanti sono i compiti e i luoghi assegnati agli uomini nel vasto mondo!). In quel piccolo posto ho però potuto vivere una storia di grande umanità, e mi è stata regalata la possibilità di affinare l’orecchio al passare del vangelo nella vita degli uomini. Da lì, con amici coraggiosi, ho ricevuto la spinta e la libertà di interessarmi alle vicende più vaste del cristianesimo in questo nostro tempo di grandi cambiamenti. In tanti anni abbiamo cercato, ascoltato, studiato, incontrato. Soprattutto, in comunità, non abbiamo mai smesso – ogni giorno – di scrutare le Scritture, di celebrare appassionatamente il passaggio del Signore Gesù tra noi. Abbiamo coltivato la passione e l’amore per tutto ciò che è umano. Ci siamo messi in ascolto delle persone nostre compagne di viaggio, ma anche delle imprese e delle tragedie della storia di ogni giorno: sorpresi, ogni volta, di essere stati preceduti, nelle profondità umane, dal passaggio del vangelo.
Ritornerò, se il Signore vuole, nella nostra parrocchia. A custodire e coltivare le ricchezze di una lunga tradizione che ancora lavora profondamente nella nostra vita cristiana. Ancora più convinto però, da questo viaggio imprevisto, che il nostro cristianesimo non può accontentarsi di sopravvivere; che non può semplicemente fidarsi delle forme religiose stabilite che rischiano di restare vuote delle attese e domande profonde degli uomini di queste nostre città, la cui cultura diviene sempre più estranea alle ispirazioni del vangelo di Gesù. A questo mondo non possiamo semplicemente presentarci con le nostre celebrazioni, i nostri discorsi, i nostri “valori” (spesso confusi e indecifrabili), come se funzionassero automaticamente. Per far riascoltare il senso evangelico dei nostri discorsi e delle nostre celebrazioni dobbiamo, prima, accostarci ai nostri fratelli uomini, condividerne le angosce e le speranze, cercare con loro di affrontare i problemi e le prove della vita, confessare fraternamente la paura e la fede che si scontrano nell’abisso della nostra esistenza, ritrovare la speranza nella testimonianza di una reciproca, incondizionata Tenerezza, pronta ad ospitare nelle sue braccia immense le nostre storie.
Se accetteremo di ripartire da lì – spinti dall’onda della secolarizzazione del nostro mondo che non ci deve fare così paura e, insieme, dall’inestirpabile vangelo che ci spinge a stare abbracciati tra noi in umanità – ci verranno spontaneamente suggeriti anche modi e stili nuovi di essere cristiani e di stare nel mondo. Assumeranno un volto nuovo anche le nostre comunità, le nostre feste e le nostre celebrazioni.
Tornerò. Sto tornando. E mi inquietano un po’ (ingenuo) la lentezza e la fatica della ripresa. Torneremo – pazientemente – a parlare di queste cose di vangelo e di Chiesa: e dell’incredibile, misteriosa avventura in cui è coinvolta la nostra vita.
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Don Sergio, un prete e un compagno di viaggio che continua a ‘sostenere’ i nostri passi.