Taizé. Una parabola di comunione

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Quando, tra alcuni decenni, si scriverà la storia della riconciliazione tra le chiese cristiane nel nostro tempo, non si potrà fare a meno di citare un piccolo villaggio posto su una collina della Borgogna, poco distante dall’antica e gloriosa abbazia medievale di Cluny: Taizè.

Qui vive, da più di sessant’anni, una comunità monastica di fratelli – cattolici e non cattolici – che, giorno per giorno, cercano di costruire una “parabola di comunione”.

Nel 1940, un giovane svizzero: Roger Schutz

A volere questa comunità fu, nel lontano 1940, un giovane svizzero nativo di un villaggio dello Jura: Roger Schutz. Fu lui stesso anni fa a raccontarmi come nacque Taizè.

Quando ero giovane, mi stupivo nel vedere dei cristiani che, pur facendo riferimento a un Dio d’amore, sprecavano tante energie nel tentativo di giustificare le loro opposizioni. E mi dicevo: per comunicare il Cristo, esiste forse una realtà più trasparente di una vita donata, nella quale, giorno dopo giorno, si concretizza la riconciliazione? Allora ho pensato che era essenziale creare una comunità di uomini decisi a donare tutta la loro vita e che cercano continuamente di riconciliarsi.

“Mi stupivo nel vedere dei cristiani che, pur facendo riferimento a un Dio d’amore, sprecavano tante energie nel tentativo di giustificare le loro opposizioni”.

Nell’estate del 1940 mi sono detto: “La guerra è scoppiata e c’è una grande sofferenza. E’ il momento di iniziare a realizzare ciò che nel cuore da tempo”. Così, da Ginevra, mi sono messo in viaggio per la Francia.

Partito in bicicletta, sono arrivato a Cluny, dove il notaio mi ha indicato una casa in vendita a Taizé. Era allora un villaggio senza strade asfaltate, né telefono, né acqua corrente. Non c’era un prete fin dai tempi della Rivoluzione.

Quando sono arrivato, sono rimasto meravigliato dall’accoglienza cordiale da parte di alcune persone anziane. Una di esse mi invitò a pranzo e mi disse: “Resti qui, siamo così soli e gli inverni sono tanti lunghi…”. E così ho scelto Taizé.

Di lì a poco, avendo saputo dove vivevo, alcuni amici mi hanno chiesto di nascondere dei rifugiati che fuggivano dalla parte della Francia che era stata occupata dai nazisti. Sapevo che per creare una comunità non dovevo aver paura di essere presente là dove la prova era più dura”. 

 Nel piccolo villaggio borgognone Roger comincia ad accogliere profughi, soprattutto ebrei. Alla fine del 1942 è a Ginevra, per un breve soggiorno: la Francia, dall’11 novembre di quell’anno, è sotto l’occupazione totale dei nazisti. La sera stessa, la Gestapo arriva anche nella casa di Taizè. A Roger non è più possibile tornare, fino alla Liberazione, nell’autunno del 1944.

Nel frattempo, a Ginevra,  incontra Pierre, Max e Daniel, i primi fratelli – tutti riformati – che inizieranno con lui l’avventura monastica e che, il giorno di Pasqua del 1949, accetteranno l’impegno per tutta la vita della comunione dei beni, del celibato e della vita comune. Senza essere stati sempre compresi dalle loro chiese d’origine (per le quali il monachesimo non ha molto senso), i primi passi della comunità coincidono con i primi passi faticosi dell’ecumenismo.

L’incontro con Papa Giovanni

Fu ancora  frère Roger a raccontarlo:

Fu il cardinale Gerlier, l’allora arcivescovo di Lione, che nel 1958 prese l’iniziativa d’introdurci da Giovanni XXIII appena eletto Papa. Desiderando deporre sul suo cuore la causa della riconciliazione dei cristiani, il cardinale domandò a Giovanni XXIII che la sua prima udienza fosse per Taizé. Perché così in fretta?

Perché si ricordi bene di ciò che gli avremmo detto, spiegò il cardinale. Giovanni XXIII accettò “a condizione che non mi facciano delle domande troppo difficili”. Fin da quel primo incontro, Giovanni XXIII impresse su di noi un segno insostituibile”.

Così, un po’ alla volta, per luterani, riformati, ortodossi e cattolici, la comunità diventa un punto di riferimento nel cammino dell’ecumenismo. In particolare, grazie a Max Thurian (che, verso la fine della sua vita, nella metà degli anni ottanta, viene ordinato sacerdote) la ricerca teologica della comunità è intensa e sistematica.

Dopo il Vaticano II, a Taizè cominciano ad entrare i primi fratelli cattolici (negli anni cinquanta e sessanta diversi furono gli anglicani) mentre, nel frattempo, la vocazione dei monaci si precisa: cercare la riconciliazione tra i cristiani e tra gli uomini e i popoli.

La straordinaria avventura del “Concilio dei giovani”

La risposta di moltissimi giovani di Paesi di tutto il mondo che, in ogni periodo dell’anno, affollano la collina li incoraggia a credere “nell’insperato”.

Agli inizi degli anni settanta, la Comunità lancia l’idea del “Concilio dei Giovani” che viene aperto a Taizè, alla presenza di quarantamila persone, nell’agosto del 1974 e, negli anni seguenti, viene promosso il “Pellegrinaggio di fiducia sulla terra” che prende forma visibile negli incontri in tutti i continenti e negli “Incontri Europei di fine anno”: città e capitali europee che si riempiono per accogliere, per lo più in famiglie, decine di migliaia di giovani. Il prossimo di questi incontri si terrà, a cavallo tra dicembre e gennaio, a Rostock, in Germnia.  Per l’incontro europeo, frère Roger scriveva sempre la “Lettera”, tradotta in 58 lingue, di cui 23 asiatiche. Una consuetudine mantenuta da frere Aloise, il suo successore. 

Alla ricerca di Dio  

A farmi da guida durante il mio soggiorno sulla collina è frère John, un americano di Philadelphia, di origini italiane, approdato sulla collina agli inizi degli anni settanta dopo essersi laureato in sociologia e psicologia. Frère John, autore di testi biblici, alcuni dei quali pubblicati in italiano, parla molte bene la nostra lingua. Attualmente  non ci sono fratelli italiani in comunità. Cosa ti ha colpito di Taizè? gli chiedo.

Rimasi impressionato dalla bontà dell’accoglienza e dalla semplicità e  bellezza della preghiera. In università avevo sentito parlare molto della comunità. Arrivai la prima volta nel 1972 convinto di trovare un monastero normale. Invece si era in piena fase di preparazione del Concilio dei Giovani e c’erano giovani dappertutto… Non immaginavo di trovarne così tanti in un periodo nel quale, adulti e chiese, sembravano temerli. Qui invece si cercava insieme e la comunità tesseva con loro un dialogo fecondo e un confronto aperto.

Ancora oggi, chi sale a Taizè resta colpito dal numero, impressionante, di giovani che provengono da tutto il mondo. Frère Roger ha scritto sul suo diario:

Guardando tutti quei volti di giovani non solo nordici, slavi o mediterranei, ma anche africani, latinoamericani, asiatici, capiamo che giungono con domande vitali. Ci si può recare anche la sera tardi in chiesa: i giovani si trovano là, in preghiera. Vi restano a lungo. Molti chiedono di essere ascoltati, sia nei freddi mesi invernali che d’estate. Perché vengono? Cercano Dio, lo Spirito del Dio vivente, quell’unica realtà essenziale nascosta ai nostri stessi occhi.

Cercano Dio, lo Spirito del Dio vivente, quell’unica realtà essenziale nascosta ai nostri stessi occhi.

 Frère John dice che, grosso modo, sono centomila i giovani che salgono, ogni anno, sulla collina. In particolare, durante la settimana di Pasqua e nei mesi estivi (seimila alla settimana in luglio e agosto). Ma anche nel resto dell’anno sono parecchi coloro che si prendono qualche giorno per ritirarsi a pregare o solamente ad aiutare i fratelli nel servizio di accoglienza.

Negli ultimi anni, dopo la caduta del Muro, sono aumentati notevolmente i giovani provenienti dai paesi dell’Est. Anche loro, come tutti gli altri, sono accolti ad uno ad uno, alloggiati, con poca spesa, in grandi tende. Durante i giorni della Settimana Santa e le settimane estive  è impressionante vedere il numero di giovani in fila per ricevere i pasti. A tutti viene chiesto di condividere i momenti della preghiera e i due incontri giornalieri. Le introduzioni bibliche sono fatte ogni mattina da un fratello della comunità. Al termine del soggiorno, a tutti è chiesto di non dare vita ad un “movimento di Taizè” ma di ritornare nelle proprie comunità cristiane e mettersi a servizio per essere “testimoni di speranza e di perdono”.

La chiesa della riconciliazione

Eppure il cuore di Taizè non è dato dalla molteplicità di lingue né dal vociare animato che si ascolta nelle piccole stradine della collina. Il cuore è un edificio in cemento armato, perfino brutto a vedersi. E’ “la chiesa della riconciliazione” costruita da una Ong tedesca nel 1962 e ampliata alla fine degli anni ottanta e che ha sostituito la chiesa romanica del villaggio, presto molto piccola per i monaci.

Tre volte al giorno – alle 8,30, alle 12,20 e alle 20,30 – tutta la variegata comunità umana che vive e sosta a Taizè si dirige verso la chiesa. Nell’abside, dietro una pila di mattoni forati al cui interno sono disposti una miriade di lumini, cadono delle grandi tele di color arancio vivo, simili alle vele di una nave che invitano a levare l’ancora. E poi fiori, arbusti, bacche disposti davanti all’icona di Maria e alla croce. 

L’effetto è notevole anche perché  il resto della chiesa è in penombra. La luce è discreta e proviene da lampade che scendono dal soffitto e dalle vetrate a colori disegnate da frere Eric, l’artista dela comunità. Non vi sono banchi e sedie ma piccoli sgabelli in legno: per tutta la chiesa è stesa la moquette e chi entra si dispone in ginocchio. Al centro una lunga fila corre lungo tutta la navata e lì si dispongono i fratelli con Frère Roger che entrava spesso accompagnato da molti bambini che si dispongono vicino a lui durante la preghiera.

Le letture bibliche e poi i canti, i famosi canti di Taizè. E poi il silenzio.

Le letture bibliche sono brevi e vengono lette in varie lingue e, in lingue differenti, viene pure cantata la preghiera di intercessione conclusa, ogni volta, da un “Kyrie Eleison” o da un “Gospodi pomiluj”. Nelle intercessioni, si tengono presente i bisogni dell’intera famiglia umana: richieste per la pace, invocazioni e suppliche per quanti vivono situazioni di disagio e di angoscia, vengono affidate a Dio.

E poi i canti. I “canti di Taizè” sono conosciuti e cantati in po’ dappertutto: tradotti in una cinquantina di lingue, vengono pubblicati in novanta edizioni. Melodie semplici, litaniche, ripetitive, con temi musicali facili da imparare. Chi saliva a Taizè negli anni settanta ricorda le straordinarie “prove di canto” del primo pomeriggio in chiesa con frère Robert. Versetti musicati di salmi, citazioni del Vangelo o dell’antica tradizione cristiana, spesso accompagnati da musicisti – alcuni dei quali famosi – che passano qualche giorno sulla collina.

All’inizio erano canti in latino, composti per lo più da Jacques Berthier. Con il passare degli anni, si sono affiancati testi in numerose lingue. Infine, il silenzio. Un silenzio intenso, non artificiale, capace di coinvolgere anche le migliaia di persone che affollano la chiesa nelle settimane d’estate. Come ha scritto frère Roger:

Dio capisce ogni linguaggio umano. Se rimani in silenzio accanto a lui, è già una preghiera: le labbra restano chiuse, ma il tuo cuore parla. E grazie allo Spirito Santo, il Cristo prega in te più di quanto immagini.

Proprio durante le liturgie si coglie il valore di Taizè: un’esperienza spirituale profonda, capace di mettere al centro la contemplazione della croce di Gesù, che è riuscita a diventare anche un modo di celebrare, un modo di cantare, un modo di pregare, un modo di rappresentare. E’ quello che cerca di spiegarmi Ester, una ragazza parigina, mentre entriamo insieme in chiesa:

Prima di venire qua ho sempre sentito prediche sulla preghiera… Molti mi hanno detto come dovevo pregare. Qui nessuno mi dice come farlo: ho trovato soltanto gente che prega ed è di questo che ho bisogno”.

Una comunità aperta all’inedito

“Fratello, mantieniti nella semplicità e nella gioia, la gioia dei misericordiosi, la gioia dell’amore fraterno… Il Signore Cristo, nella compassione e nell’amore che ha per te, ti ha scelto perché tu sia nella Chiesa un segno dell’amore fraterno. Egli vuole che tu realizzi con i tuoi fratelli la parabola della comunità. Così, rinunciando a volgere lo sguardo indietro, e gioioso di una riconoscenza infinita, non aver mai paura di precedere l’aurora per lodare e benedire e cantare il Cristo tuo Signore.

E’ l’esortazione che viene letta in chiesa ogni volta che un fratello si impegna nella comunità per tutta la vita. “Quanti fratelli vivono oggi in comunità?” chiedo, di nuovo, a frère John.

Oggi siamo 110  provenienti da 25 nazioni diverse dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e dell’America. Metà sono cattolici l’altra metà divisi tra riformati, luterani e anglicani. Tre sono preti cattolici mentre i novizi sono una dozzina. Non siamo solo qui a Taizè. Abbiamo quattro fraternità sparse per il mondo: in Brasile, vicino a Salvador Bahia, in Senegal, in Bangladesh e a Seul, in Corea. Se una parte di noi non condividesse la vita con i più poveri della terra, non potremmo vivere quello che viviamo a Taizè. Non esiste contemplazione senza lotta e impegno nella storia senza preghiera”.

“Non vi sono difficoltà nel provenire da confessioni cristiane diverse?”

No – mi risponde – Oggi no perché non siamo una comunità di teologi e non passiamo tutta la giornata a discutere sulla fede. Vogliamo essere una comunità di fratelli che pregano e lavorano. Chi viene in comunità ha già fatto un cammino personale di apertura all’altro e alla sua ricchezza. Le differenze le sento più a livello di provenienza geografica, segnate più dal carattere e dal temperamento di ciascuno…” 

Apritevi a tutto quanto è umano e vedrete dissolversi ogni vano desiderio di fuggire dal mondo. Siate presenti nel vostro tempo, adeguatevi alle condizioni del momento.

Il testo di riferimento per tutti sono le “Fonti di Taizè”, il nuovo nome della vecchia regola scritta (e continuamente rivista) da frère Roger tra il 1952 e il 1953. Un testo che vuole indicare soltanto “l’essenziale che consente la vita comune”. Ai fratelli, nell’Introduzione, raccomanda:

Non vi imponete un’ascesi fine a se stessa. La ricerca di un dominio sulla vostra persona non ha altro scopo che il farvi acquisire una maggiore disponibilità. Senza fare inutili astinenze, attenetevi alle opere che Dio comanda: portare i fardelli degli altri, accettare le ferite meschine di ogni giorno. Apritevi a tutto quanto è umano e vedrete dissolversi ogni vano desiderio di fuggire dal mondo. Siate presenti nel vostro tempo, adeguatevi alle condizioni del momento.

Amate i diseredati. Amate il vostro prossimo, qualunque sia la sua visione religiosa e ideologica. Non rassegnatevi mai allo scandalo della separazione fra cristiani che professano così facilmente l’amore del prossimo, ma restano divisi”. 

La vita in comune è regolata dalla preghiera e dal pranzo consumato insieme. Poi ciascun fratello segue i propri impegni: chi nell’accoglienza, chi nella liturgia o nella musica, chi nel laboratorio di ceramica o nella tipografia. La comunità non accetta doni e pertanto vive solamente del proprio lavoro. Non ci sono orari fissi di alzata e di riposo. Anche dopo molti anni, vige, in comunità,  una grande libertà che mi ha sorpreso. “Sì, frere Roger ci ha sempre detto che la vita di fede non è qualcosa di statico ma è seguire le tracce di Dio dentro la storia. Per questo bisogna essere aperti all’inedito e non irrigidirsi in schemi e regole troppo definiti.”

 Vivere l’oggi di Dio

Sono risalito a Taizè dopo molti anni. Ero curioso di scoprire se ritrovavo ancora le ragioni profonde che mi portavano, da adolescente e da giovane, a passare alcuni giorni con i monaci. Volevo capire come la vita al villaggio continuava dopo la morte violenta di frère Roger, avvenuta il 16 agosto del 2005 durnate la preghiera della sera. Ero anche interessato a capire se l’esperienza non fosse, in qualche modo, consunta e logora.

Ho trovato una comunità viva, uomini appassionati del Vangelo, non troppo preoccupati delle loro sorti, aperti a quella che chiamano la “dinamica del provvisorio”. Ho incontrato giovani, da ogni parte del mondo, assetati di una verità che non può non avere i passi della riconciliazione e del perdono. Parole difficili oggi. Eppure necessarie. Per questo, non si può non tornare a Taizè. L’ha detto bene Giovanni Paolo II salito anche lui, nell’ottobre del 1986, a pregare e a incontrare la comunità. “Si passa a Taizè come si passa accanto a una fonte. Il viaggiatore si ferma, si disseta e continua il cammino.”

Papa Wojtyla ha detto: “Si passa a Taizè come si passa accanto a una fonte. Il viaggiatore si ferma, si disseta e continua il cammino”.

Vivere l’oggi di Dio. Questo è quanto si respira, ancora oggi, a sessantadue anni dalla fondazione nel piccolo villaggio della Borgogna. Questo è quanto mi diceva frère Roger quando gli chiedevo di raccontarmi, al termine del mio soggiorno, il suo sogno sul futuro di Taizè.

Per il futuro non facciamo mai progetti a lungo termine… Tali progetti potrebbero impedirci di vivere l’oggi di Dio. Invece, spesso ci sorprendiamo a chiederci: cosa si aspetta il Cristo da noi? Ed è sempre come se ci trovassimo solo all’inizio di una vita comune con i miei fratelli e all’inizio di un pellegrinaggio di fiducia sulla terra…. Cristo non chiama nessuno al tormento interiore. Egli ama ogni essere umano, senza eccezioni. Resuscitato dice ad ognuno: “Sono con te. Non ti abbandonerò mai e poi mai.

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