Preti e vita comune. Utopia di ieri o possibilità di oggi?

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I preti vivono per lo più ognuno per conto loro.
Eppure la vita in comune potrebbe essere una eccellente testimonianza.
Ma fatica a decollare

Premetto che chi scrive non è un esperto in materia di vita comune: non ho studiato alcuna esperienza né ho consultato documenti ecclesiali sul tema.

La mia personale esperienza

Scrivo pertanto solo alla luce della mia esperienza: ho vissuto l’esperienza della vita comune per un po’di anni presso la parrocchia di Grumello del Monte. Sono giunto da seminarista, nel lontano 2008 a Grumello, vivendo i fine settimana con i preti che in quell’esperienza credevano e, insieme alla Diocesi che diede non solo il benestare, ma anche le indicazioni pratiche per strutturare la casa dal punto di vista pastorale, diedero vita all’esperienza.

Ne è nata una casa che prevede spazi comuni e, per ciascun prete, la stanza da letto, lo studio e i servizi igienici. Ordinato prete nel 2010, il Vescovo di Bergamo mi destinò curato di Telgate, dicendomi che avrei però abitato a Grumello, insieme al nuovo parroco che stava per arrivare in parrocchia don Angelo e don Fabio, curato di Grumello. La diocesi voleva investire su questa forma di vita insieme dei preti, considerata buona e generativa anche di collaborazioni pastorali preziose, oltre che testimonianza evangelica evidente per le comunità.

La diocesi: favorire le esperienze in atto

Oggi mi domando se quella fosse un’utopia o questa esperienza sia ancora possibile. Non ho ricette, provo semplicemente a offrire alcune riflessioni. Innanzitutto, credo sia necessario, come fu per me, un mandato chiaro della Diocesi: chi abita le case parrocchiali appositamente studiate per ospitare una vita comune di sacerdoti (mi sembra siano 3 in Diocesi), deve sapere che tipo di vita vi troverà ed essere d’accordo con questa forma.

La vita comune dei preti è diversa da quella dei monaci e dei religiosi

Poi, certamente, ogni gruppo di sacerdoti che la abiterà fisserà le sue regole, in quanto la vita comune dei preti diocesani non è quella dei monaci o di altri istituti religiosi, ma la consapevolezza che quella è, e deve rimanere, una casa finalizzata per quella esperienza deve essere chiara a chi accetta di abitarvi (anche solo per quanto essa è costata in termini economici e per il cammino fatto dalle comunità per giungere a quel progetto).

Su questo, mi permetto di dire, deve essere chiara la Diocesi in sede di nomina: non cambia l’esperienza se non la accetta il prete, semmai viceversa. Poi, credo siano importanti le attitudini personali: la vita comune non è per tutti e, come è giusto che sia, non tutti si sentono di viverla. Su questo, occorre molta onestà da parte di ciascun presbitero. L’obbedienza è sacrosanta, ma la delicatezza dell’esperienza richiede che chi non se la sente lo affermi subito e senza esitazioni: a volte, credo, l’obbedienza risiede anche nell’affermare chiaramente che non ci si sente idonei a una richiesta, anche se viene dai superiori.

Non più la “casa parrocchiale”, ma la “casa della comunità”

Per chi sceglie questa forma di vita presbiterale, occorre aver chiaro che non si vive più nella tradizionale “casa parrocchiale”, ma in una “casa della comunità”, luogo che non solo è la residenza dei preti della parrocchia, ma anche spazio per incontri e attività dei gruppi e delle persone di quella comunità parrocchiale. Come in una famiglia, le decisioni allora verranno condivise tra tutti i preti che abitano la casa: è sufficiente che uno sia escluso per far cessare immediatamente l’esperienza.

La vita comune chiede apertura e capacità di scambio e di condivisione

È evidente, da questi pochi spunti, che la vita comune è esperienza anche spirituale, perché richiede umiltà, necessita di evitare ogni atto di arroganza o supremazia, nella ferma convinzione che il parere dell’altro, seppur diverso, abbia lo stesso valore del mio.

È difficile quindi la vita comune per i preti? Forse oggi lo è più di ieri: siamo uomini e come tutti gli uomini e le donne del nostro tempo respiriamo un clima culturale che certamente non aiuta esperienze come queste. Del resto, il modello del “one man show”, di colui che ama avere tutte le attenzioni per sé, ha un suo fascino anche su noi preti. Il mio timore è che diventiamo sempre più bravi… da soli, perché l’altro diventa ostacolo che offusca la nostra immagine.

Eppure, anche se forse è un’utopia, continuo a credere che, se si vuole e si è disponibili, con un po’ di umiltà la vita comune resti una splendida esperienza di Chiesa possibile. Ed evangelica.

1 Comment

  1. Gianantonio Farinotti ha detto:

    Vita comune: utile, opportuna, necessaria.

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