
Mi ha colpito per la sua franchezza e sincerità. Si colloca abbastanza al di fuori della retorica classica su paternità e filialità e questo mi è piaciuto.
C’è un fondo di sincerità semplice. Per esempio, il primo spunto è la fatica del padre nell’accompagnare la vita a cui ha offerto un mondo che in questo momento vive «anni feroci». Tutti i giovani padri – anche le madri ovviamente – parlano di questa grande questione che sentono dentro: l’aver chiesto ai figli la fiducia di nascere in un mondo duro, in tempo di guerra, di violenza scatenata. Nella canzone questa sincerità, che è anche un’inquietudine fortissima, è ripresa con diverse immagini. Per esempio quando parla del «buio che arriva nel giorno che muore». Ci sono giorni che muoiono, il buio che arriva, eppure la vita vale la pena e vale la pena attraversarla. E tutto questo il cantante lo scopre dalla figlia: mi è piaciuto molto.
Non è lui che insegnerà: i padri scoprono la loro fragilità, perché non hanno il potere di condurre in senso tradizionale, di rassicurare, di garantire la felicità. Possono accompagnare, riscoprire che si attraversano prove, sofferenze, anche ingiustizie. Ho apprezzato anche quando Brunori Sas fa dei passaggi avanti e indietro nel tempo. Dice che da piccolo ha colto «la differenza tra il sangue e il vino». Racconta di un’infanzia in cui le prove della durezza ci sono state e adesso, diventato padre, va a recuperare quello che la vita allora, quando era figlio, ha cominciato a sedimentare dentro di lui e che aveva un po’ dimenticato. La vita è dura, è sangue, ma è anche vino, è pane condiviso e coraggio per conquistarlo.
«E tutta questa felicità forse la posso sostenere/Perché ha cambiato l’architettura e le proporzioni del mio cuore/ E posso navigare sotto una nuova stella polare». Un passaggio molto bello, che mostra quanto radicalmente la genitorialità possa cambiare una persona.
È una conclusione bellissima. In alcune culture – in passato anche nella nostra – la maternità e la paternità sancivano quasi una sorta di proprietà dei figli, un prolungamento di sé. Da tempo, invece, la paternità ha cambiato segno: è un’esperienza della fragilità, dell’impotenza a evitare le sofferenze e a garantire la felicità. E questo è un brivido. Però un figlio o una figlia ti trascinano a pensare al futuro, a prendere dei rischi, a essere libero, a ripensare nel profondo a ciò che vale e di ciò che vale molto meno. Apprendi pian piano che la paternità è un approfondimento della tua umanità, che il tuo cuore si dilata perché ospiti altra vita. Non solo quella dei figli e delle figlie come tuo prolungamento e proprietà, ma come altro tempo, altra attesa, altra occasione di responsabilità e di sensibilità. Addirittura, si inizia a delineare una «stella polare» che dà orientamento alle tue scelte, che diventeranno delle consegne e dei lasciti, non solo a tua figlia, ma ai coetanei di tua figlia e ai figli di tua figlia.
Certo. Non sei tu, uomo, che lasci il tuo segno, un monumento del tempo. Ti è nata una figlia che adesso ti attende, ti fa domande, ma allo stesso tempo segna subito la differenza da te, perché ha pensieri propri e fa le sue scelte. È da subito altro da te, si avvia su un cammino che non è il tuo. Fai l’esperienza della differenza radicale, devi accettare di essere capace di starle vicino comunque. Questo può insegnarci a fare la stessa cosa con tutte le differenze, tutte le diverse strade. Bisogna lasciar andare ed è bellissimo: i gesti diventano affidamenti, consegne, che poi sta ai figli interpretare. Questo gioco della libertà un po’ inquieta i padri e un po’ li lascia capaci di sorpresa.
Di fronte ai miei figli, a mia figlia che mi manda questa canzone, che è andata così lontana per i suoi studi, alla sua voglia di giustizia, di dare un senso al suo lavoro di ricerca sui diritti umani, sono sorpreso e sono ammirato. Così come lo sono davanti ai miei studenti e le mie stendesse. Sono appena andato in pensione e l’ultima tesi che seguo è quella di una giovane donna che sta facendo una rilettura di Simone Weil a partire dalla sua esperienza professionale con le persone senza dimora. È un lavoro formidabile: io resto commosso davanti a questi cammini di vite giovani, di vite figlie che però segnano già il nuovo.
Il desiderio di genitorialità e i timori che lo accompagnano sono al centro del numero di VITA intitolato “Perché non vogliamo figli”: se sei già abbonato, grazie e clicca qui per leggere il magazine, se invece vuoi abbonarti puoi farlo da qui. In apertura foto di Marco Alpozzi/LaPresse