Vincenzo Bonandrni ha parlato spsso di una politica che nasce da un modo di stare nelle comunità. Un modo, uno stile umano, un relazionarsi attento e responsabile. Per la fondata convinzione che
polìtica, potere e organizzazione possano lasciarsi interrogare e modificare da stimoli e metodologie educative. Non vi è solo posto per la politica come gestione, dominanza e sottomissione. Vi è posto per la politica che nasce dalla ricchezza delle idee; dalla volontà forte di costruire la città rendendo servizi ai suoi abitanti.
La forza della politica non si esaurisce nella paura di numeri, mezzi e poteri. Si può fare politica attivando cambiamenti migliorativi del “bene comune”, perché si conosce di più, si comprende meglio, si esercitano presenze ricche di condivisione, di partecipazione, di coinvolgimento progettuale. (…) Il governo in prospettiva educativa — di gruppi e organizzazioni, comunità e associazioni — comporta l’assegnazione di centralità o ogni soggetto umano implicato nel gioco organizzativo a valenza educativa.
Trovano posto le soggettività con le loro proprie personalità, entrano in considerazione le aspettative, i desideri e le motivazioni di ogni attore. Hanno risalto le capacità, la preparazione professionale, le volontà. (…)
Stanno qui le specificità della politica e del governo, dell’autorità e del potere, intese in prospettiva di servizio con accentuazioni educative.
Politica e potere non sono luogo di vittoria per alcuni o di sottomissione per altri. Sono il luogo di un faticoso riconoscere le reciprocità, le identità e le soggettività perché si diffonda tra gli uomini il comandamento biblico del “siate signori” e “date nome alle cose”[3].
Perché, inoltre, non vi sia spazio alcuno per una interpretazione che vede queste qualità dell’agire politico discendere da rigidi ed escludenti presupposti religiosi, la riflessione prosegue puntualizzando.
Pur senza giungere a questo sentire, proprio delle categorie religiose, possiamo fermarci alle consapevolezze laiche raccolte negli statuti costitutivi degli stati a regime democratico. I diritti delle minoranze, che non vedono manifestarsi sovrana la loro volontà, sono riconosciuti, rispettati e tutelati. Le democrazie di grande tradizione storica e civile annoverano legislazioni di sicura garanzia per le libertà delle minoranze. La tutela del diritto al dissenso è un grande vanto delle democrazie liberali. (…)
In alternativa al vento del decisionismo individuale – corporativo si possono attuare modalità più cooperative e collaborative[4].
Come stare nei processi aperti, nelle comunità? Vincenzo Bonandrini mette a fuoco due coppie di caegorie-guida tra le quali scegliere e orientarsi nella propria azione sociale. La prima coppia è “intrusione-visitazione”.
L’intrusione evoca l’entrata con forza negli oggetti, nelle relazioni, nelle persone. (…) Perquisisce, insegna, scopre…” Plasma e adegua ad un disegno, fa applicare ed eseguire, assegna compiti. È preoccupata di fare breccia, di lasciare il segno.
“La visitazione evoca il presentarsi, l’attendere, l’essere accolti. Il visitatore vede, riconosce, comprende, ricorda e si prende cura degli oggetti, delle situazioni, delle persone incontrate e visitate. Gli sono proprie le categorie della testimonianza, della presenza e del confronto che orientano, fanno ordine, domandano ripensamenti, dispongono al cambiamento[5].
Quanto insistere e sperimentare perché le funzioni di governo dell’associazione si esprimessero con continuità nella visita alle realtà di base, alle comunità, ai servizi, alle persone! Per potere favorire in questo modo progressivi e rispettosi riconoscimenti, incontri, scambi.
La seconda coppia di categorie è “presenza-assenza”. Nella prospettiva dell’assenza i formandi, i cittadini, i soggetti portatori di uno svantaggio o di un bisogno… sono portatori di mancanza, di assenza da colmare e riempire con un lavoro, una decisione, una trasmissione che completa, adegua, supporta/sostituisce.
Nella prospettiva dell’assenza l’obiettivo del riempire una lacuna porta ad individuare uno stadio finale di dover essere.
Le diversità appaiono segno di “ordine non raggiunto” e di “norme non osservate”. Le diversità vanno ricomposte e non può essere dannoso il conflitto (…).
Nelle prospettive della presenza i soggetti sono invece portatori di risorse che chiedono d’essere riconosciute e attivate, con la possibilità di sperimentare insieme, cercare, partecipare alla decisione ed alla gestione.
Nella prospettiva della presenza l’obiettivo si dà come sviluppo di un processo di analisi, ricerca e comprensione intorno alla propria esperienza, favorendo itinerari di esplorazione, scoperta, acquisizione, manifestazione.
L’analisi dei bisogni formativi è fatta progressivamente, ha caratteri di apertura connessi allo snodarsi della nuova consapevolezza dei formandi.
La conduzione è orientata alla responsabilità che si fa garante degli spazi e delle opportunità di ricerca proprie dell’itinerario che si lascia verificare.
Vi si rivela una concezione della società e delle organizzazioni nelle quali “ordine e norme” — in quanto qualità, stile, priorità e regole della reciprocità che fanno la convivenza — sono sempre da ricostruire, ridisegnare e ripraticare, trovando forme che tengono conto della pluralità degli obiettivi, visioni, pensieri e saperi e, dunque, della complessità e delle ambivalenze.
Le diversità non sono da ricondurre ad ordine e norma, sono chiamate a interazione perché si riconoscano e siano valorizzate anche attraverso processi dialogici e ricorsivi nei quali i conflitti vengono assunti e governati.
Visitazione e presenza di persone ricche, di ricche diversità: visita e presenza per tessere trame nuove e umane di convivenza, e dimensioni di senso che diano consistenza alla libertà personale e energia ai legami di comunità.
La crisi dei rapporti sul piano dei vissuti si traduce nella lacerazione del tessuto sociale, nello sciogliersi dei legami dell’individuo con il contesto sociale, ma non è legge necessaria, né situazione semplice e irreversibile. Le energie, le motivazioni, le speranze presenti nelle persone possono essere base reale, realmente presente, per una costruzione sociale e politica.
Anche la riflessione di Vincenzo sulla solitudine non è chiusa ed amara, né solo sociologica. Egli condivide con Martin Buber (“Il principio dialogico” è una delle letture più attente) la convinzione che nell”‘età senza casa”, che è la nostra, l’esperienza della solitudine che gli uomini fanno non è risolvibile con la costruzione rapida di una nuova “casa”, sia essa una nuova ideologia, un’organizzazione, una tradizione, una fede assoluta, il rinserrarsi nel particolarismo…[6]
No. La solitudine ha una virtù problematizzante, apre all’ulteriore: è un’esperienza umana che può essere e farsi percorso verso luoghi e modi di relazione gratuiti e liberi, “in cui ci sia soffio di vita”. Come quelle del dialogo (che dà vita alla formazione) e della creazione (che dà vita all’intrapresa, alla professione, alla cooperazione).
Si ricercano nuove radici nei comportamenti colti come significativi per le persone, le famiglie, la comunità. Le radici delle nuove generazioni paiono potersi radicare meno nei terreni della tradizione e della storia e più entro i tessuti della reciprocità quotidiana che dà senso alla convivenza. E aperta o apribile la epocale esplorazione delle evidenze etiche condivise.
Le reti dei rapporti interpersonali diventano, o possono diventare, ambito entro il quale soddisfare bisogni semplici, come risolvere e dare risposte ai grandi perché della vita, della storia umana, di ogni storia umana tragica e suggestiva ad un tempo, eccezionale o lineare e routinaria ad un altro tempo“[7].
Negli anni ottanta con Vincenzo Bonandrini (e grazie alle opere, ai servizi diffusi sul territorio e alle esperienze di punta in campo cooperativo o formativo professionale nelle quali ha avuto un ruolo fondamentale Gianfranco Sabbadin) le Acli bergamasche hanno maturato una sensibilità particolare nella compagnia a donne e uomini, giovani e anziani delle comunità. Compagnia che fa emergere senso del tempo, stupore per quanto nelle persone si coltiva, gratitudine per i sentieri feriali della grazia di Dio.
Dunque la convivenza è caricata di grandi attese e istanze, non vi sono altri luoghi per le domande sull’esistenza. Gli apprendimenti paiono essere presi meno dalla storia e dalla tradizione, per altro sconvolta. Si domandano testimonianze di comportamenti e atteggiamenti, parole e pensieri che entrino con autorevolezza nelle menti e nei cuori, quali testi e pagine viventi da consultare cam-min facendo.
Bisogna riprendere le fila e ricominciare a tessere trame e orditi. I fili stanno per parole, le trame e gli orditi per discorsi, i tessuti per convivenza. Così la convivenza si carica di senso all’interno di una vita di rapporti interumani fatti di comunicazioni, parole e discorsi tra persone che si incontrano[8]
Si tratta di riscrivere la relazione, di riaprirla: luogo di senso e verità, luogo di incontro con l’altro, con l’Alterità. Spazio per sentire il limite e per ascoltare l’eterno: attesa di vita.
In questa riscrittura non vi è nostalgia di ritorno ad una comunità organica, come se si trattasse di tornare alla forma immediata e originaria di relazione, quella tra il bambino e la mamma: una fusione rassicurante, una relazione di identità.
Niente di tutto questo: piuttosto l’esperienza e la costruzione di una relazione con l’altro in quanto altro, “una relazione dialogica, cooperativa, tra parlanti”, ognuno dei quali si assume la responsabilità di quello che dice di fronte all’altro.
Appunto la responsabilità, che riconosce nell’altro l’origine del diritto, e che lega i destini a partire dalla cura per il fratello. “Che ne hai fatto di tuo fratello?”. Troviamo segnato sul libro di Buber questo passo: “l’amore è responsabilità di un io per un tu, non è i sentimenti che pure lo accompagnano… la sua intenzionalità costitutiva è responsabilità di un io per un tu ” (…) “i sentimenti abitano nell’uomo, ma questi abita nel suo amore; non è metafora questa, è realtà (…) l’amore si trova TRA l’io e il tu“[9].
Io-I’altro come responsabilità, dunque. Ed una fonte che è principio di tutto: Dio, che per primo “mi dà del tu” e a cui devo rispondere. Mi ha affidato il fratello (e in lui Se stesso): devo custodirlo.
Corrispondere così a Dio è il nostro modo di scegliere la sequela di Cristo; è abbracciare umanamente il palmo di terra affidatoci.
Dandogli significato, rendendolo abitabile dall’altro, specie se fragile e svantaggiato. Si è in relazione con Dio svolgendo il compito che Egli ci affida.
[1] V. Bonandrini, “Formarsi alla solidarietà…”, op. cit.,pp. 12-13.
[2] V. Bonandrini, Le Acli. Radici spirituali per una rinascita…, op cit
[3] V. Bonandrini, “Le Acli, movimento educativo – Organizzare la formazione”, in: ‘Il lavoratore lombardo”, n. 5, 1988, Milano.
[4] ibidem
[5] V. Bonandrini, “Comunicazione, formazione, stili e modelli di pensiero”, Elementi di riflessione per la formazione di educatori e operatori sociali, p. 5.
[6] M. Buber, “Il principio dialogico” e altri saggi, Edizioni San Paolo, 1993.
[7] V. Bonandrini, “Formarsi alla solidarietà…”, op. cit., p. 9; V. Bonandrini, “Cercar Dio è il mestiere delle Acli”, lettera ai membri di Presidenza Acli Bergamo, S. Natale 1985
[8] ibidem
[9] M. Buber, Il principio dialogico, op cit