Certo, è curioso, se misuriamo il peso specifico del religioso nelle nostre società, riandare alla stagione – era appena il tornante fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento – in cui campeggiavano senza se e senza ma nella cultura occidentale le teorie sociologiche della secolarizzazione, accompagnate appunto da quelle, sul versante teologico, della cosiddetta morte di Dio.
Che prendevano le mosse da due principali constatazioni: a monte, la sempre minore incidenza, un dato oggettivo, del cristianesimo nelle sue varie declinazioni sulla società, sulla politica, persino sul vissuto quotidiano dei fedeli; e a valle, l’ipotesi che anche le religioni altre – di cui ancora poco si sapeva e ritenute non di rado un relitto del passato di stampo medievale – erano destinate a scomparire, prima o poi, e comunque quando fossero venute a contatto con la modernità nei suoi aspetti più dinamici, l’avanzare impetuoso della scienza e la tecnologia su tutti.
Senza dimenticare che le teorie della secolarizzazione incorporavano almeno tre significati, prossimi ma distinti: il declino della religione tout-court; la crescente differenziazione fra le cosiddette sfere del sacro e del profano; e infine, la privatizzazione del rapporto con la fede.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, fino a renderci consapevoli che, a dispetto dell’ormai avvenuta secolarizzazione di costumi e stili di vita, la postmodernità in cui siamo immersi è ancora chiamata a fare i conti con le religioni. Spesso, purtroppo, a caro prezzo. Tanto che ormai appare legittimo – e, per quel che mi riguarda, doveroso – riprendere in mano l’interrogativo del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, il quale, dal carcere nazista in cui fu rinchiuso dal 1943 al 1945, si domandava per nulla retoricamente se sia possibile vivere, dopo duemila anni della sua storia, il cristianesimo “etsi Deus non daretur”. Fino a immaginare un “cristianesimo non religioso”.
Ottant’anni dopo, stiamo appurando che è perfettamente possibile vivere “come se Dio non ci fosse”, come capita oggi alla maggioranza dei cittadini europei, i quali in qualche misura ancora si dicono sì cristiani – qualunque cosa ciò significhi per loro – ma che alla questione di cosa o chi sia Dio, o ai dubbi relativi alla sua esistenza o alla sua inesistenza, non dedicano alcun interesse. Senza problemi, rimpianti o rimorsi.
Perché un gran numero di persone, in concreto, ha smesso di credere in Dio e le chiese non sembrano più in grado di affrontare tale situazione, di testimoniare e comunicare la buona notizia di Dio. Si tratta di un disincanto diffuso, rispetto a un discorso che è stato – e per certi versi è ancora – troppo sicuro di sé…
Johann Baptist Metz, uno dei maggiori teologi del postconcilio ideatore fra l’altro della teologia politica, pur ritenendo – naturalmente – la decadenza strutturale e la debolezza diffusa nella Chiesa una questione dirimente, ripetutamente sottolinea che ancor più rilevanza sta oggi acquisendo la crisi di Dio. Con un ulteriore paradosso: tale crisi non si manifesta facilmente, perché a sua volta essa si collega spesso a un’evidenza religiosa. Fino a far dire allo stesso Metz che si tratta di una crisi di Dio in un’epoca religiosamente entusiasta…
Nel mio libro – che ha l’ambizione di provocare un po’ di dibattito al riguardo – provo a tracciare qualche risposta, ponendomi nella prospettiva della Chiesa di domani, individuandone le tracce già nella situazione odierna. Mi domando: cosa resterà, della Chiesa in frantumi di oggi, nei prossimi decenni e oltre?
“Karl Rahner – disse il cardinal Martini nell’ultima sua intervista, nel 2012, al Corriere della sera – usava volentieri l’immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore?”
Ecco ciò che ho inteso esplorare in Senza Chiesa e senza Dio, nella consapevolezza che si danno due narrazioni fondamentali sul futuro delle chiese (adotto il plurale, non casualmente) e del cristianesimo: una, minoritaria, ottimista, e un’altra, largamente prevalente, pessimista. Secondo la prima, le chiese sarebbero destinate a emergere trionfanti dall’attuale palude stigia: contro ogni probabilità, esse proseguiranno ad adempiere il loro mandato divino di evangelizzare i loro contemporanei.
Stando all’altra, per contro, il loro declino è inevitabile, a gioco medio-lungo, e il cristianesimo – come ogni altra religione, si presume – è destinato a perdere influenza e a tirare i remi in barca, mestamente. Come dicevo, per quanti si sentano coinvolti c’è da rimboccarsi le maniche ma ancor più il pensiero, perché da troppo tempo, come chiese, abbiamo smesso di pensare.
È un appello urgente pur se spesso dissimulato, davanti al quale è quasi naturale che ci si divida, anche all’interno delle comunità dei credenti: è stato così sempre, nella storia ecclesiale, ed è così nell’odierna stagione, nulla di strano!, purché il confronto – mi permetto di dire – non si traduca in divisioni preconcette e in un’acrimonia reciproca priva di pietas. Anche per questo, la partita è tutt’altro che chiusa. La posta in gioco è davvero alta (il che vale anche, ovvio, per l’odierno Cammino Sinodale).
Rispondo a partire da un dato che intendo evidenziare: l’abbandono delle pratiche e la cosiddetta crisi di Dio non stanno causando la scomparsa dei bisogni di senso, della consolazione e della ritualizzazione che costituivano il fondamento dell’antica domanda religiosa, anche se questi elementi si sono, in buona parte, trasformati e vengono reinvestiti altrove.
Occorre prenderne atto, come fa Giuliano Zanchi scrivendo da Bergamo, epicentro italiano della pandemia: “Mai come in questi momenti si può avere consapevolezza di quanto le nostre parole religiose siano consumate, estenuate dall’abuso, depotenziate dal controllo: esse ora scivolano sulla realtà, in questi giorni così brulicante, come acqua su una tela cerata. Non ce siamo presi cura che per blindare la loro immutabilità. Ora non abbiamo che fossili verbali utili solo alla stratigrafia di un mondo scomparso”.
Lo ribadisce un teologo ceco assai attento alle trasformazioni del cristianesimo, Tomàš Halík: “Forse è giunto il tempo di abbandonare molte di quelle parole pie che abbiamo continuamente sulle nostre bocche e sui nostri stendardi. Queste parole, a causa di un uso continuo, spesso troppo superficiale, sono consumate, usurate, hanno perso il loro significato e il loro peso, si sono svuotate, diventando leggere e facili. Altre invece sono sovraccariche, rigide e arrugginite; sono diventate troppo pesanti per riuscire a esprimere il messaggio del Vangelo, la buona novella”.
Di fronte a questi scenari, dopo duemila anni, mi pare evidente che il cristianesimo, giunto ormai al suo inevitabile appassimento come sistema religioso, sia oggi convocato a radicarsi di nuovo nell’esigente logica della parola evangelica. Investire in formazione rimane l’unico modo possibile per preparare il futuro, per seminare futuro. E la formazione richiede inventiva, risorse economiche e mentali, lungimiranza, e la pazienza dei passi brevi nella coscienza dei tempi lunghi.
Certo, nel futuro contesto sempre più secolarizzato e post-secolare, quel che resta del cristianesimo e dei cristiani – non solo in Occidente – si troverà a operare in uno spazio pubblico affollato di proposte etiche, morali, spirituali e teologiche variopinte, non di rado in contrasto fra loro e destinate a confrontarsi con il basso continuo della permanenza di atteggiamenti e stili di vita pienamente secolarizzati. Qui siamo, con le macerie del cristianesimo di ieri ancora fumanti. Ma non servono, e non serviranno, posture passatiste. E non serve a nulla, neppure stavolta, secondo l’immagine di Numeri 11,5, rimpiangere le cipolle egiziane…
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Quanto mi rattrista assistere checché se ne dica, a questo declino! Scusate ma io lo dico: preti mestieranti ultimi ad arrivare in chiesa fermi al dottrinino di antica memoria, altro che comunicatori e diffusori della fede. Molto meglio i movimenti, ma con loro non c’è mai stata una pulita integrazione, eppure da essi avremmo molto da imparare