Era stata molto faticosa quella visita, molto.
Ma da tempo lo erano parecchie delle visite nell’area sanitaria della Casa circondariale, per motivi diversi: per la durezza e i segni dei nuovi giunti, per la sofferenza mentale di troppi. C’era chi era terrorizzato dalla malattia, che lo puniva e gli toglieva ogni spazio di giustificazione al male fatto. C’era chi si rannicchiava dentro le malattie senza resistervi minimamente, fuggendo dal morso della colpa, sentendosi vittima.
C’era poi chi si feriva, nei modi più diversi ed anche crudeli, perché il dolore gridasse la solitudine o l’angoscia dello scomparire nei giorni.
C’era poi chi si feriva, nei modi più diversi ed anche crudeli, perché il dolore gridasse la solitudine o l’angoscia dello scomparire nei giorni. C’era chi non si curava, non prendeva la terapia, la regalava o la vendeva: curarsi era pensare al futuro e questo faceva troppo male. Un modo per lasciarsi alla deriva.
Non era per questo che aveva scelto medicina, non era per vedere infrangersi contro la durezza o la palude del “devivre” il suo sforzo di preservare la vita, di riaprirne la possibilità in giorni nuovi. Che fare con chi quei giorni non li voleva conoscere? O con chi li temeva come giorni del giudizio e del deserto?
Che fare inoltre, per contro, con chi rideva delle sue vittime, della sofferenza procurata, del loro lamento, ritto nell’arroganza del suo potere e del suo cinismo, guardandola negli occhi? Dove trovare la forza e il distacco per curare il carnefice, e per sostenere il disgusto?
Visitare tenendosi oltre e al di là di quegli occhi era a volte insopportabile, e sempre la lasciava stanchissima.
Ma visitare i corpi dagli occhi svuotati e lontani, dilatati nello sfinire, era insostenibile. Aveva già visto lo svuotarsi e l’inaridirsi lento e inesorabile della sua storia d’amore, e della fiducia, del desiderio. Grazie al cielo il figlio aveva fatto in tempo a partire, per la sua strada, i suoi sogni.
Ma quella visita era stata molto faticosa: quel giovane dell’est europeo, magro e duro, si ritraeva a ogni contatto, anche il più delicato. Si scuoteva ad ogni parola, anche la più calma. Si faceva irraggiungibile. Anche le cicatrici ed i calli di molte fratture lo portavano lontano, in un altro mondo, di guerra, di violenze dure, cieche e fredde. E pure lo sentiva così vicino, e lo cercava di cogliere nella cura.
Gli aveva parlato a lungo, con dolcezza, in inglese e in italiano, muovendosi come una farfalla attorno a un fiore
Gli aveva parlato a lungo, con dolcezza, in inglese e in italiano, muovendosi come una farfalla attorno a un fiore sfiorando, auscultandolo, premendo piano. E il fiore, come un animale ferito, a resistere, a non credere all’offerta di attenzione.
Aveva letto anni prima Jean Améry nel suo prezioso Intellettuale ad Auschwitz:[1] “Chi è stato torturato resta tale”. E aveva letto anche Primo Levi, che anni dopo e dopo il secondo e riuscito tentato suicidio di Améry, scriveva: “la tortura è stata per lui una interminabile morte”.[2] Ridotto a cosa, a solo corpo, a pietra un uomo che ha vissuto la piena disponibilità per altri, si è ormai sentito nel pieno della presa su di lui. Come quel ragazzo: solo corpo, passivo e colpito: succube alla forza tra corpi che si scontrano.
Da quella visita era uscita madida di sudore. Solo uno sguardo, un battito, un sussulto di vita e di nostalgia era comparso dal fondo degli occhi di quel corpo. Quel solo corpo. Gli esami avrebbero confermato una diagnosi seria ma affrontabile. Più difficile sarebbe stato affrontare il processo per il ferimento.
Non era arrivato alla settimana successiva: i concellini lo avevano trovato seduto vicino alla tazza con una corda fatta di strisce della stoffa della camicia stretta attorno al collo. Appeso, a un metro e poco più da terra.
Chi ha vissuto i propri simili come animali avversi “non può sentire suo il mondo (…): la fiducia del mondo è crollata”.[3] E, con la fiducia, l’esporsi e l’attendere alla vita.[4] La frattura del senso è frattura della vita: “smantella il rapporto con il mondo”, era amarissimo Amery.[5] Vien da portare a compimento la riduzione a cosa operata dalla forza.
Chi ha vissuto i propri simili come animali avversi “non può sentire suo il mondo”
L’esperienza le diceva che molto in un Istituto di pena riduce a corpi, coltiva una anestesia del sentire. Che anche la cura, l’incontro possono essere contaminati dalla cultura della punizione e dell’inibizione, mettono alla prova le capacità di preservare la vita e la fiducia.
Come con quel ragazzo: quando la sofferenza è stato l’orizzonte dei giorni e ha impregnato le relazioni, allora soffoca, avvelena. Non si riesce a dirigerla in un senso, a destinarla e a dedicarla, si fa, insieme, potente e sprecata. E tocca nel fondo di un uomo, di una donna, tocca quel punto estremo dove può darsi o può perdersi il credere, il perdonarsi, il restare in vita.
Quando visitava sentiva, a volte, sotto le sue mani capaci che stava toccando quel punto ambiguo del desiderio, dove si toccano e si decidono il lasciarsi andare e l’accettare di trovarsi ancora in vita. Vie flottant scrive il primo Ricoeur: ritrovarsi in vita, come in passività, in esposizione; e poi, via via, in cura ricevuta e in cura assunta. E sempre in scelta e in libertà: in quella sorta di necessità di stare in vita che è anche prova del resistere, dell’accettare. Mentre sotto resta potente la tentazione dell’evitamento, del sottrarsi.
I corpi che toccava, gli occhi con cui parlava tante volte portavano lo sfinimento e la colpa, l’impotenza. Anche l’irreversibilità senza perdono e il futuro senza promessa: coglieva la corrosiva tentazione del nulla. E anche lei doveva sottrarsi e sfuggirle.
Le era difficile incontrare gli occhi di carne presi da questa tentazione. Occhi che hanno ormai lacerato le strategie, costruite nel tempo, per non ritrovarsi lì, in quel punto ambiguo ed estremo del decidere di vivere.
Quel ragazzo non sosteneva più nulla: non la cura anche amorevole, non il giudizio, non la memoria, non la rabbia di vendetta. Nel suo biglietto “scusa mamma, non ho più niente da darti” c’era tutto quello che poteva offrire alla sofferenza, alla delusione, al fallimento dei sogni della donna. Da dare aveva solo il suo corpo. Estrema offerta, liberazione dalla sua presenza fisica.
Nel suo biglietto “scusa mamma, non ho più niente da darti” c’era tutto quello che poteva offrire alla sofferenza
La dottoressa aveva incontrato gli occhi, e gli occhi le avevano rinviato quasi solo il nulla, l’incapacità di intravedere un sentiero. “Inclinazione” alla morte, dicevano le pagine di Améry, con la sua attrazione, il senso di inevitabilità, e il suo risucchio, lo scivolamento.
Aveva provato la parola e subìto il suo scacco, aveva toccato anche il fallimento del gesto di cura davanti alla “inclinazione” alla morte. Un tempo lo aveva provato anche davanti alla rottura della gioiosa attesa dell’amore. Prima o poi, almeno un poco, si provano entrambe nella storia di una figlia e di un figlio d’uomo. E si sente qualcosa di diverso da quel che si pensa per forza sia un “conflitto interiore”, quello tra tensioni e pulsioni opposte, quello della nostra volontà divisa e spaccata. No, quello è degli intellettuali. Si sente, piuttosto, l’aprirsi d’una palude, quella per la quale la lingua latina aveva una parola dolciastra come certe droghe, come certo veleno: noluntas.
I giorni son tornati a pesare sempre più e lei pareva un’ombra rassegnata e indifferente, quasi non investendo più nulla sulla propria vita. Faceva come quelli che si mettono ”a lato di se stessi”, che si riducono a operatività pura, ricorrente: senza risonanza, come certi marginali, certi profughi, certi sopravvissuti. Dopo passaggi come fratture l’unico mormorio, colto in qualche visita tra un avvicinamento e un arretramento, è: “di chi sono? a che vale?” Solo a volte la letteratura riesce a dire quel mistero che dentro muove. “Il dolore rimbalza nei meandri delle storie di vita a risvegliare taluni inciampi dell’esistenza, o tramutandosi in sofferenza stabile il cui significato sfugge alla consapevolezza dell’individuo”![6]
Dopo aver incontrato quegli occhi i giorni erano ripresi, con ritualità, affanni, e prestazioni “buone”. Avevano in apparenza chiuso le lacerazioni, nascoste le fratture, soffocato l’eco del vuoto. Ma per chi lavora sugli strappi delle violenze e del senso, sulle lacerazioni della fiducia di base, sulle incertezze che può provare un uomo o una donna circa “lo stare al mondo”, restava ormai lo svelamento, la prova.
La mattina che non la videro in sezione, puntuale e silenziosa come sempre, qualche collega non si stupì. Pensò subito al significativo ammanco di farmaci di qualche giorno prima. E al commento della dottoressa: “è normale…”. Non molti parteciparono al commiato, sobrio e dolorosamente delicato, pochi giorni dopo.
Entrare in un incontro con la pena, anche nella cura, è sempre vivere uno strappo
Entrare in un incontro con la pena, anche nella cura, è sempre vivere uno strappo. Questo incontro qualche volta può essere resistenza di vita, ma altre volte porta a incontrare i propri moventi, le angosce, quelle che introducono nei giorni il tarlo del tormento e della consumazione, che nel tempo si possono fare insostenibili.
Nella relazione di cura in condizioni “estreme” come quelle di un carcere, prima o poi tutto questo viene ‘richiesto’. La esposizione sulla violenza, sulla ‘inclinazione’ alla morte e sullo sfiguramento fa sentire in un gioco ambiguo. Sul confine della vita flottant dove i fondi dell’umano riemergono nella loro forza, rigeneratrice o distruttiva.
La prima irruzione è quella delle storie dolorose, spaccate, delle persone che vivono la fatica anche profonda di stare al mondo. Sì, l’irruzione può stemperarsi in riconoscimento ed ospitalità, o può lasciare soli. Sulla scena della cura può restare solo l’incontro di due fallimenti: nella “zona grigia” tra desiderio di vita e “inclinazione” alla morte. Là dove donne e uomini osano incontrarsi, si sta tra il vuoto e l’aperto, poi, ognuno solo, si fa un passo.
Leggi anche:
Lizzola
[1] J. Améry, Intellettuale ad Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, p. 74.
[2] P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, 2007, p. 14.
[3] J. Améry, Intellettuale a Auschwitz, cit., p. 82.
[4] “da questa posizione nemmeno riesce a scrutare verso un mondo in cui regni il principio della speranza” , J. Améry, Intellettuale ad Auschwitz, cit., p. 51.
[5] D. Le Breton, Esperienza del dolore, Cortina, Milano, 2014, p. 120.
[6] Ivi, p. 100.