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L’altro esiste e soffre

Le bandiere della Palestina e di Israele in un puzzle

“Da laico nella città” – Rubrica a cura di Daniele Rocchetti
Israele e Palestinesi, la faticosa coesistenza.
Un libro per cogliere l’umanità delle questioni in gioco.
Un’affermazione profetica del card. Martini

Bassam Aramin è palestinese. Rami Elhanan è israeliano. Il conflitto colora ogni aspetto della loro vita quotidiana, dalle strade che sono autorizzati a percorrere, alle scuole che le loro figlie, Abir e Smadar, frequentano, ai check point. Sono costretti senza sosta a negoziare fisicamente ed emotivamente con la violenza circostante. Come l’Apeirogon del titolo del libro (Colum McCann, Apeirogon, Feltrinelli, Milano 2022), un poligono dal numero infinito di lati, infiniti sono gli aspetti, i livelli, gli elementi di scontro che vedono contrapposti due popoli e due esistenze su un’unica terra. Ma il mondo di Bassam e di Rami cambia drammaticamente e irrimediabilmente quando Abir, di anni dieci, è uccisa da un proiettile di gomma e la tredicenne Smadar rimane vittima di un attacco suicida. Quando Bassam e Rami vengono a conoscenza delle rispettive tragedie, si riconoscono, diventano amici per la pelle e decidono di tentare di usare il loro comune dolore come arma per la pace. 

Assumere la complessità

A raccontare la vicenda di Bassam e Rami – ospiti a Bergamo alcuni anni fa a Molte Fedi –  è Colum MacCann, scrittore irlandese che vive a New York. In un libro che – come suggerisce il titolo – assume l’infinito come misura della complessità e delle sfaccettature della spirale di violenza che, a cicli continui, tormenta il Medio Oriente. 

Assumere questa complessità è il primo esercizio per chi cerca di decifrare, in modo non superficiale, quanto avviene in quella terra e per chi desidera una pace che, se non vuole essere ridotta a sentimento sterile e inefficace, non può essere separata dalla giustizia. 

Servirà dunque fermarsi su molti e intricati aspetti: la pretesa alla lunga impossibile e perdente di uno Stato, quello di Israele, che vuole essere insieme ebraico e democratico; la continua e ostinata costruzione di insediamenti su terreni occupati e non più restituiti dopo la guerra dei Sei giorni; l’irrilevanza progressiva di palestinesi nell’interesse degli Stati, in primis quelli arabi, e nello scacchiere geopolitico; la mancanza, da entrambe le parti, di una leadership e di una politica capace di sguardi lunghi e di scelte coraggiose che ha creato un vuoto riempito sempre più in modo prepotente dall’ideologia religiosa che pretende di offrire risposte semplici a questioni complesse.

Guardare al dolore dell’altro

Eppure continuo a credere che non ci sarà pace ne giustizia finchè entrambi i popoli (ciascuno con molte ragioni e molti torti) non guarderanno al dolore dell’altro. Affacciarsi sul dolore dell’altro non sarà la chiave politica di risoluzione del conflitto ma nessuna scelta futura, se vorrà essere significativa, potrà sottrarsi dal farlo.

Tanti anni fa, mentre guidavo un gruppo di pellegrini della diocesi di Milano ebbi il dono di incontrare il cardinal Martini, da poco ritiratosi a Gerusalemme. Durante il tempo trascorso insieme, mi parlò a lungo di uno dei segni di speranza che gli pareva di percepire in quella terra lacerata (erano gli anni della seconda Intifada): la realtà dei Parent’s Circle, a cui aderiscono sia Rami che Bassam: genitori, ebrei e palestinesi,  che hanno perso un familiare nel confitto. All’associazione hanno finora aderito duecentocinquanta genitori israeliani e duecentoventi genitori palestinesi, oltre a un ristretto gruppo di drusi. Dopo qualche tempo, il cardinal Martini pubblicò un articolo sul Corriere dove riprese molte delle cose che ci aveva detto. Sono passati anni, eppure forse questa è l’unica strada per immaginare, certo non in tempi brevi, un futuro possibile di convivenza. Alcune delle affermazioni del card. Martini:

Certamente l’odio che si è accumulato è grande e grava sui cuori. Vi sono persone e gruppi che se ne nutrono come di un veleno che mentre tiene in vita insieme uccide. Per superare l’idolo dell’odio e della violenza è molto importante imparare a guardare al dolore dell’altro. La memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l’odio quando essa è memoria soltanto di se stessi, quando è riferita esclusivamente a sé, al proprio gruppo, alla propria giusta causa.

Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace. Non fabbricarti idoli: idolo è anche porre se stesso e i propri interessi al disopra di tutto, dimenticando l’altro, le sue sofferenze, i suoi problemi. Il superamento della schiavitù dell’idolo consiste nel mettere l’altro al centro, così da creare quella base di comprensione che permette di continuare il dialogo e le trattative. 

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Rocchetti

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