I cristiani, quelli di oggi e quelli del futuro. Taizé

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I cristiani, quelli di oggi e quelli del futuro. Taizé

Da laico nella città – rubrica a cura di Daniele Rocchetti
Frère Matthew è il nuovo priore della comunità di Taizé.
La figura straordinaria di frère Roger.
La vicenda dolorosa degli abusi. Lo spazio dato ai giovani.

“Sono salito per la prima volta a Taizé nel 1985 insieme ad un gruppo di amici dell’università di Sheffield, la città del nord dell’Inghilterra dove studiavo. A quel tempo, presso la cattedrale anglicana, una volta al mese si teneva una preghiera ecumenica. Un’’esperienza che mi ha preso quasi subito: il silenzio, l’ascolto della Parola e i canti di Taizé. Mi sono sentito in accordo interiore. Decisi quindi di venire qui sulla collina per due settimane: la prima partecipando agli incontri, la seconda ritirandomi in silenzio.”

A parlare così è frère Matthew, dallo scorso 3 dicembre nuovo priore della comunità di Taizé.

Sono salito nel piccolo villaggio borgognone, non lontano da Cluny e dai resti della sua magnifica abbazia medievale, per incontrarlo. Durante la mia permanenza, dialogando con numerosi giovani di tutto il mondo e partecipando alle tre liturgie quotidiane, ho avuto modo, ancora una volta, di cogliere il valore che da tanti anni accompagna questa comunità monastica ecumenica: un’esperienza spirituale profonda, capace di mettere al centro la contemplazione pasquale di Gesù di Nazareth, che è riuscita a diventare anche un modo di celebrare, di cantare e di pregare. Una koinè liturgica unica a più generazioni che riesce a tenere insieme, in modo non artificiale, il respiro spirituale insieme al respiro del mondo.

Frère Matthew mi accoglie nella casa della comunità e il dialogo prende subito avvio con molta franchezza e libertà. 

Cosa dissero i suoi genitori quando comunicò la decisione di venire a Taizé?

Studiavo medicina e loro insistevano perché terminassi gli studi, cosa che non ho fatto. Dopo quella volta, decisi di ritornare a Taizé per fare un po’ di volontariato e vivere un anno sabbatico. Se devo essere onesto, avevo già nel cuore il desiderio di entrare in comunità ma mi dissi: “Prenditi un anno per verificare”. In realtà, pochi mesi dopo – era il 1986 – capii che non c’era altra possibilità: questa chiamata di Gesù necessitava una risposta immediata, radicale. I miei genitori compresero il senso della mia scelta quando vennero a trovarmi: videro il luogo, incontrarono i fratelli, sentirono che avevo trovato il mio posto e si tranquillizzarono subito.

Ha potuto dunque vivere diversi anni con frère Roger. Quali sono i suoi primi ricordi di lui?

Quando venni come volontario, il fratello della comunità che mi accompagnava gli parlò di me e una sera, dopo la preghiera, frère Roger venne a prendermi e mi portò davanti all’icona della Vergine dicendomi: “Maria è la madre di tutti, di tutti noi”. Questo mi fece una grande impressione: lui era calvinista eppure aveva questo amore fortissimo per la Vergine. Per me è stato un momento molto importante, ha aperto delle porte e dei pensieri sui quali in seguito ho lavorato molto. Ricordo poi la prima volta che fui invitato a cena con la comunità. Frère Roger mi prese con sé, mi portò a guardare dalla finestra la casa e mi disse con molta tranquillità: “Vorremmo che questa casa bruci, così potremmo costruirne una molto più semplice, come san Francesco”. Si immagini il mio stupore! Quella sera, visto che il sole tramontava, mi portò fuori a vederlo ripetendo continuamente: “Che bello, che bello!”. Venne così il tempo della preghiera e non abbiamo mangiato! Frère Roger era poesia e creatività ma aveva anche il coraggio sempre di aprire i cammini e andare avanti. Noi abbiamo potuto vedere la sua forza e la sua debolezza, per questo non abbiamo mai voluto farne un’agiografia. E’ stato una grazia averlo visto nella sua umanità: Dio ha lavorato attraverso questa umanità. 

Molte comunità nate dopo il Concilio Vaticano II hanno vissuto momenti di straordinaria fecondità e bellezza ma successivamente sono andate in crisi vivendo, a volte, anche tempi di lacerazione e di rottura. A Taizé questo non è capitato. Perché?

Quando è morto frère Roger molti pensavano che lui fosse Taizé e che la comunità sarebbe crollata senza la sua presenza. In realtà, frère Aloise, il successore, e tutti noi abbiamo continuato a custodire con forza tutto quanto si faceva prima: la vita comune, la preghiera, l’accoglienza dei giovani – dagli incontri qui in collina a quelli in Europa e negli altri continenti – la presenza tra i più poveri. L’abbiamo sentito come una cosa molto importante.

Pure la vicenda, dolorosa, degli abusi è stata una grande occasione di purificazione e di lavoro su di noi. Sono emersi infatti alcuni casi di abuso a carattere sessuale sui minori avvenuti tra gli anni ’50 e gli anni ’80 da parte di tre fratelli, due dei quali morti una ventina di anni fa. E’ stato un momento molto difficile. Come comunità ci siamo chiesti a lungo se c’era qualcosa nella nostra formazione che ha permesso tutto questo. Abbiamo lavorato tanto su di noi e tanto stiamo ancora facendo. Ascoltando le vittime, ci siamo resi sempre più conto della profondità delle ferite. Quello che è successo ha rappresentato per noi qualcosa di intollerabile e scandaloso e ci ha allontanato – per fortuna! –  da qualsiasi forma di idealizzazione della nostra comunità.

Certo, per continuare, è chiesto a noi una fedeltà creativa, nel senso che ogni tempo deve ridire il carisma nelle sfide dell’oggi, altrimenti si rischia di diventare musei carichi di tanta nostalgia ma senza più vita. Tenga conto che oggi in comunità ci sono giovani venti fratelli che non hanno conosciuto frère Roger. Questo impone a noi – che viviamo quasi come se lui ci fosse sempre – la necessità di ridire ogni giorno il senso della nostra esperienza

La vicenda degli abusi cosa ha significato per voi?

Ha provocato un lavoro doloroso, necessario e fondamentale. Tra l’altro ci ha resi molto più attenti alla questione della libertà delle persone che accogliamo. Venti anni fa, mi capitava di dire a un giovane: “Penso che Dio voglia questo per te”. Ora non me la sento più e anche il cammino di discernimento è diverso. Mi porta a chiedere sempre: “Che cosa pensi tu?” C’è un rispetto molto più grande della libertà della persona. 

Quanti sono adesso i fratelli?

Un’ottantina. La maggior parte vivono qui, a Taizé, altri nelle piccole comunità sparse nel mondo: in Brasile, in Bangladesh, in Senegal, in Corea del Sud, a Cuba e da pochi anni anche a Pantin, una città molto vicina a Parigi, nel dipartimento di Seine-Saint-Denis, il più giovane, multiculturale e povero di Francia, dove la maggioranza delle persone sono mussulmane. Abbiamo anche sei fratelli in formazione. Un numero inferiore che negli anni passati ma non possiamo lamentarci. La comunità resta internazionale: lo scorso anno è entrato il primo fratello libanese maronita, uno viene dal Bangladesh, un altro dal Guatemala, un altro ancora dal Cile…

Qual è la confessione con il maggior numero di fratelli?

(frère Matthew ci pensa un po’) Non lo so (si mette a ridere).

Frère Roger era calvinista, Alois è cattolico e lei è anglicano: una conferma ancora una volta della vocazione ecumenica della comunità. Cosa vuol dire oggi, in un tempo in cui anche il dialogo ecumenico pare segnare il passo?

Penso alla veglia di preghiera tenuta lo scorso 30 settembre in piazza San Pietro. Con Papa Francesco vi erano venti capi di Chiese e tutti erano allo stesso livello. Insieme hanno pregato davanti alla croce, insieme hanno dato la benedizione. E’ stato un segno di speranza dell’unità dei cristiani. Lo sappiamo: diversi temi teologici ci dividono eppure, oggi più che mai, c’è il desiderio di essere insieme. Lo chiede il Vangelo e lo chiede il nostro tempo.

Guardo al processo sinodale in atto nella Chiesa cattolica. Dentro questa Chiesa c’è una grande diversità e il cammino sinodale sta cercando di accogliere e valorizzare le tante forme plurali presenti. Non è possibile farlo anche come Chiese? Riconoscere il valore di ciascuna e ricondurle tutte, nella loro differenza, al Cristo che salva? E’ una ricerca ininterrotta. Lo penso ogni volta che vedo i giovani salire qui da noi. Non sono essi stessi Chiesa? Per tanti di loro, l’importante non è la confessione ma la ricerca del Cristo. Questo è interessante e forse loro vedono più lontano di noi. La Chiesa deve incontrarsi con loro in questo desiderio. Il catechismo dobbiamo rifarlo, per incontrare la gente. Papa Francesco dice così: serve camminare insieme, ascoltare e accompagnare. Abbiamo bisogno di comunità, abbiamo bisogno di appartenere a qualcosa. Come possiamo come cristiani, come Chiese, accogliere e incontrare i giovani nella verità di quello che sono?

Cosa porta molti giovani ancora a Taizé?

Penso che qui semplicemente trovino uno spazio accogliente, senza persone che dicono loro “devi fare così”. C’è una comunità che prega e quelli che vengono sono invitati a entrare nella preghiera, non hanno l’impressione di essere diretti. C’è uno spazio di libertà per lo scambio reciproco. Mi ricordo quando sono venuto la prima volta agli youthcamps, gli incontri dei giovani: al mattino vi era un fratello che guidava e dava alcune indicazioni bibliche e poi ci lasciava perché potessimo confrontarci insieme. Penso di essere molto sensibile anche oggi a questa libertà. A volte, quando capita un giovane nelle nostre parrocchie sentiamo subito l’esigenza di pianificare e di dargli un compito, una responsabilità. No, no, bisogna prima ascoltare e capire.

Cosa vuol dire prendere sul serio le domande che i giovani pongono?

Vuol dire ascoltare e incontrare senza pregiudizi. Da sempre, dopo la preghiera della sera molti fratelli si dispongono lungo la chiesa della Riconciliazione per ascoltare i giovani che vogliono parlare. Ricordo che diversi anni fa, ragazzi di 15/16 anni, durante questi colloqui ci chiedevano: “Cosa fate voi per il creato?”. Prima che partisse il movimento sull’ambiente e sulla protezione del pianeta c’erano già queste domande. Bisogna essere capaci di farci evangelizzare da loro e su questo tema, ad esempio, è stato certamente così.

Oggi tanti giovani, lo vediamo, sono molto vicini al Vangelo ma non si riconoscono nella Chiesa. E’ forse quella Chiesa in uscita di Papa Francesco? Sì, dobbiamo apprendere da loro. Le confesso che per me la secolarizzazione è un grande grande dono, ci obbliga a dire e vivere l’essenziale. Se ci fa caso, il racconto giovanneo della cacciata dei mercanti dal Tempio non è posto, come nei Sinottici, alla fine del Vangelo ma all’inizio, al secondo capitolo. Quasi fosse il programma di Gesù: decostruire il Tempio, le nostre immagini di Dio, per permettere di adorare il Padre in verità e in Spirito.

A proposito della secolarizzazione: sono in tanti a viverla con paura, difendendosi…

Credo che occorra lasciare questa mentalità per la quale “dobbiamo difendere qualcosa”. Che dobbiamo fare? Difendere Dio? Non è abbastanza grande per difendere sé stesso? Ho lavorato a lungo con i giovani della Svezia, giovani che da molto tempo non sono più nella Chiesa luterana. Eppure hanno una grande sete spirituale e non portano più il bagaglio del passato. Credo che avverrà presto anche nei Paesi cattolici…

A quale conversione sono chiamate oggi le Chiese?

Anzitutto a custodire uno sguardo di compassione. Capace di scorgere sempre semi di futuro dentro le vite, senza essere bloccati su ciò che sta alle spalle. Frère Roger ci invitava spesso a non giudicare la persona nel momento stesso ma di comprenderla nel cammino della sua storia. Avere uno sguardo che libera, non che inchioda. E liberare anche la stessa immagine di Dio. Per noi il volto di Dio è quello di Gesù nel Vangelo ma Dio è sempre più grande di qualunque immagine facciamo di Lui. Ci è sempre davanti. E nessuno può cercare di rinchiuderlo dentro il proprio recinto. Ai tanti che hanno paura vorrei ripetere ciò che un giorno frère Roger, riprendendo Papa Giovanni XXIII, disse: “Noi non siamo guardiani dei musei ma continuatori di un giardino vivente”. Una storia ancora tutta da vivere.

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