
Guardo fuori dalla finestra, le foglie sono tutte cadute dagli alberi, cominciano a marcire nel prato e ai bordi del viale di casa.
Già.
Per accogliere il mistero e la speranza in esso contenuta bisogna spogliarsi, lasciar andare, sentirsi nudi come gli alberi in questa stagione.
L’entusiasmo (en-theos) dell’incarnazione si prepara con lo svuotamento di sé. Sino a far tacere tutto, vigilanti, in attesa.
La vita che si rinnova, il mondo che continua a venire a mondo, la creazione continua, ha bisogno del vuoto. La speranza prende corpo nel vuoto.E’ forse per questo che la speranza fa così fatica ad incontrarci, ad incarnarsi in questo tempo. Un tempo quotidiano sempre pieno: di cose, pensieri, movimenti, immagini, informazioni.Un tempo pieno della nostra volontà. Un tempo sempre accellerato, carico di obiettivi, programmi, scadenze. Tempo spesso senza qualità, senza senso.
E’ allora che il vuoto ci fa paura, e allora eccoci lì a rincorrere la nostra pallida ombra. Automi, come in uno stato di anestesia continua.
Si rigenera solo ciò che è in grado di tornare al principio, al silenzio del principio. “In principio era il logos”. Dal silenzio nasce la Parola, anche la parola della speranza.
Che si fa compagnia e condivisione, racconto. Che fa spazio al sogno della nostra libertà, la libertà della nostra vocazione.
La speranza che prepara all’azione, all’azione che genera e che rigenera. Non c’è bisogno di agitazione ma della fecondità del vuoto che accoglie il desiderio della vita.
Questo è “ dare la propria vita”, non conservare la propria fede come un antiquario, attraverso dogmatiche che non sanno più parlare agli altri. Tutte le istituzioni del passato millennio moriranno. Ma in se per un cristiano questo non è un problema. E’ sempre andata cosi e sarà così sino al compimento dei tempi. E’ così misteriosamente possibile mettere al mondo la novità che ci viene incontro dal futuro.
E’ così misteriosamente possibile “fare nuove tutte le cose”, non solo produrre e consumare nuove tecnologie. L’esistenza è un pellegrinaggio, non è consistente. La vita, quella umana in particolare, esiste, non consiste.
L’esistenza è una danza, un canto, una musica, un pellegrinaggio. Come ci ha sempre insegnato la nostra tradizione.
Anche noi abbiamo bisogno di essere convertiti, di trasformarci. Di lasciare andare vecchi schemi e vecchie abitudini. Anche noi abbiamo bisogno di metanoia. Per ritrovare il fuoco della tradizione. Fede, speranza e amore. Non è forse questa la santità?
Quindi?
Dobbiamo tornare ad essere generativi, con i giovani, a cinquanta, sessanta, settanta, ottant’anni, questo ci farà parlare con i giovani : immaginare che il bello di noi stessi debba ancora venire. Senza questo atteggiamento è inutile agitarsi. Serve un azione generativa, che parte dal “lasciare andare”, dall’autorizzare, dall’avere speranza e fiducia nell’invisibile e nell’impossibile.
Per generare alternative, che non vuol dire che il mondo diventa tutto come vogliamo noi, ma che noi amiamo un mondo plurale, non una dittatura ed una monocultura, è necessario generare nuove esperienze spirituali. Ricomprendere lo spirito, accanto al corpo e all’intelletto. La classica antropologia cristiana. Come un elemento sostanziale della vita, per aiutarci, tutti quanti, a fare un esperienza più piena di se e della realtà: degli altri, del cosmo, di Dio.
La pandemia ci sta offrendo una grande occasione, ma noi come il faraone d’Egitto , non ascoltiamo. Silenzio, solitudine, fragilità, morte, destino comune, bisogno di comunità, possibilità di trasgressioni generative (che non sono la contrapposizione binaria di si – vax / no- vax).
Abbiamo ascoltato? Stiamo ascoltando? Abbiamo il coraggio di custodire e condividere insieme le domande che questo tempo ci pone?
Forse è il caso di dar vita a esperienze spirituali di emancipazione dalle tecnologia. Esperienze che non fanno diventare la volontà la cosa più importante. La tecnologia moderna non è niente altro che il rigonfiamento della nostra volontà di potenza. Noi non siamo solo la nostra facoltà volitiva. Le parti più nobili di noi non abitano la nostra volontà. Chi prova la ferita e il trauma questo lo sa. Noi siamo innanzi tutto la nostra fragilità. Il nostro valore abita la nostra fragilità ed è la nostra fragilità che conduce al senso. Questo allora vuol dire abbandonarsi, non trattenere, lasciare andare, non ossessionarsi nel controllo. Rinascere, trasformarsi.
Buon pellegrinaggio nella speranza dunque, insieme.