Domenica si vota per le elezioni politiche. Gli analisti e tutte le previsioni danno per certa la sconfitta, consistente, della proposta politica del Partito Democratico. Il partito che, fino a poco tempo fa, secondo le rilevazioni di IPSOS, era la formazione politica più votata dai cattolici praticanti.
Le pericolose ambiguità dei difensori di Dio-patria-famiglia
Da lunedì questo dato potrebbe non essere più veritiero. Sarà interessante capire quanto il cristianesimo identitario – a volte benedetto da preti che nella nostalgia dei numeri di ieri si illudono di recuperare i “valori” grazie ad alleanze con quanti oggi, opportunisticamente, sembrano volerli salvaguardare, quando in realtà e nella pratica li svuotano – sarà decisivo per la vittoria del centro destra (tutto compatto a sostenere la triade Dio-Patria-Famiglia).
Se così fosse, sarebbe utile per il Partito Democratico una radicale (e non finta) autocritica. E sarà utile anche ai cattolici italiani, in diaspora da molti anni, una riflessione su come stare da credenti nella città di tutti. Personalmente penso che più che immaginare un contenitore politico (tentazione che si riaffaccia spesso) occorra ricostruire le condizioni che possano ridare legittimità – in un quadro sociale frantumato e in preda a convulsioni che spaccheranno ancora di più il tessuto umano delle nostre comunità. – alla costruzione, condivisa, dell’umano.
I cristiani che hanno passione per la città (ma come possono definirsi tali se questa passione non ce l’hanno?) dovrebbero convincersi che sempre più è tempo di semina. Semina di pensiero e di idee. Tempo di studio e di formazione. Perché nella città di tutti si sta con laicità e con rigore, non per l’etichetta. Tempo di sperimentazioni e di esperienze collettive.
E’ sempre in mezzo ai poveri e ai piccoli dove si impara a risorgere
La fede non è faccenda di idee. La fede la si incontra nella vita concreta e semplice, toccando la terra, le cose, le persone, i poveri. E quindi – sottolinea spesso Luigino Bruni – con opere concrete, che oggi mancano molto, troppo, nella comunità cristiana. Istituzioni nuove, giovani, fatte con e insieme ai giovani, con e insieme ai poveri perché è sempre in mezzo ai poveri e ai piccoli dove si impara a risorgere.
Nei periodi delle sue molte crisi epocali, la Chiesa è risorta generando opere: i Monti di pietà del Quattrocento, che risposero alle gravi crisi della povertà urbana; le migliaia di opere educative e sanitarie dei carismi sociali dal Seicento al Novecento, le cooperative e le casse rurali nell’inizio Novecento. Anche in terra bergamasca.
Nella confusione del presente, alcuni cattolici stanno immaginando una “terzietà” di centro e moderata. E’ una soluzione che personalmente mi convince poco. Come ha ben scritto recentemente Franco Monaco:
Non voglio far dire al papa ciò che non dice, ma, leggendo con attenzione la sintesi del suo magistero sociale condensata nella Fratelli tutti, si ricava l’impressione che egli prospetti sì una “terza via”, ma – qui la novità – di una terzietà da intendere in senso diverso rispetto a quello di un passato ormai lontano: non come via mediana tra modello liberal-capitalista e collettivista-socialista (oggi fuori gioco), ma intesa come via distinta, altra e alternativa alle due al presente in campo, quella neoliberale e quella populista. Dunque, terza sì ma non mediana, non di centro, di sicuro non moderata. Semmai più audace e radicale nell’ambizione di “cambiare il mondo”. L’opposto della tatcheriana massima TINA (“there is no alternative”).”
Perché non si può stare a metà. “Non esiste il centro tra giustizia e ingiustizia”, diceva uno slogan cileno. Ma, prima ancora, lo ha detto la vicenda di Gesù di Nazareth.