C’è morte e morte. C’è qualcuno, anche famoso, di mondo e di chiesa, che è morto prima ancora di morire e ci sono altri che sono vivi anche da morti, perchè per loro parlano persone e libri, situazioni e drammi, immagini e sentimenti. Tra quest’ultimi trova senz’altro posto la figura di don Lorenzo Milani – di cui quest’anno ricordiamo il centenario della nascita (1923-2023) – la cui parola è più viva che mai. Almeno a giudicare dall’enorme quantità di articoli, libri, dibattiti e convegni, promossi per ricordarne la figura. Certo, fare memoria di don Lorenzo, significa chiederci – senza sconti – se è rimasto ancora qualcosa di un uomo che, da vivo come da morto, è segno di contraddizione. D’altronde, qualunque sia il giudizio sulla vita e sull’opera del prete fiorentino è impossibile rimanere neutrali. Bisogna scegliere da che parte stare: occorre schierarsi.
Tensione, rigore: sta qui, soprattutto, la “scomodità” di don Milani che si avverte tutte le volte che si deve parlare o scrivere di lui. E’ scomodo perché è un personaggio che misura le nostre immaturità e i nostri ritardi, i compromessi che, a poco a poco, abbiamo chiamato mediazioni, gli opportunismi che abbiamo definito sempre più necessari e opportuni.
Leggendo le sue lettere, ci si rende conto che la sua “scomodità” proviene da una dedizione radicale, consumata senza un attimo di sosta fino alla morte. Così scrive in una lettera a don Ezio Palombo:
Ponete in alto il cuore vostro e fate che sia come una fiaccola che arde. Io penso che su questo punto non bisogna avere pietà, di nessuno. La mira altissima, addirittura disumana (perfetti come il Padre!) e la pietà, la mansuetudine, il compromesso paterni, la tolleranza illuminata solo per chi è caduto e se ne rende conto e chiede perdono e vuol riprovare da capo a porre la mira altissima..” Ed ancora: “Ecco dunque l’unica cosa decente che ci resta da fare: stare in alto (cioè in grazia di Dio), mirare in alto (per noi e per gli altri) e sfottere crudelmente non chi è in basso, ma chi mira in basso. Rinceffargli ogni giorno la sua vuotezza, la sua miseria, la sua inutilità, la sua incoerenza. Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce. E splendenti e attraenti solo per quelli che hanno Grazia Sufficiente da gustare altri valori che non siano quelli del mondo.
Per capire qualche cosa dell’opera di don Lorenzo Milani occorra partire subito dalle contraddizioni. Figlio di madre ebrea, Alice Weiss, e poi prete cattolico; agnostico fino a vent’anni e testimone dell’Assoluto per il resto della sua vita; colto, coltissimo, eppure gli ultimi tredici anni della sua vita li ha passati in un borgo di montagna nemmeno segnato sulla carta geografica e da morto, su sue precise volontà, è stato messo nella cassa vestito con i paramenti sacerdotali e gli scarponi di montagna.
Credo però che occorra andare oltre, perché don Lorenzo non è stato solo un uomo di contraddizione ma anche un uomo carico di profezia. Distinguere l’una dall’altra è importante per capire cosa oggi possa rimanere e valere. E’ un lavoro di discernimento che evita ogni forma di reducismo e ha il coraggio di indicare vie possibili di emancipazione.
Quando, il 27 maggio del 1923, Lorenzo nasce, si trova in una famiglia con un padre, laureato in chimica, ricco possidente, filosofo e poeta che sapeva parlare e scrivere in sei lingue, e una madre, colta, amante di buone letture. Lorenzo è nipote di quel Domenico Comparetti, illustre grecista, filologo, conoscitore di diciannove lingue, i cui testi sono ancora oggi usati in alcune università italiane.
Come i figli dei ricchi del tempo, fino alle medie non frequenta le scuole pubbliche ma studia a casa con professori pagati dalla famiglia. Nel frattempo, per sfuggire alla crescente voglia di razzismo che sinistramente iniziava a circolare in Europa, padre e madre, benchè non credenti, decidono di sposarsi in chiesa e di battezzare i figli.
La famiglia si trasferisce a Milano e Lorenzo frequenta il Berchet, il liceo classico: è insofferente alla scuola e dopo aver sostenuto gli esami per la maturità, promosso per un soffio, si dà alla pittura, iscrivendosi all’Accademia delle Belle Arti di Brera. La ricerca dell’essenziale, l’incontro con l’arte sacra, lo avviano, con voracità, verso quella strada di ricerca dell’Assoluto che lo segnerà per tutta la vita.
Ordinato prete nel 1947 dal cardinal Elia Dalla Costa viene mandato come cappellano a San Donato di Calenzano, un paese a forte concentrazione operaia, a metà strada tra Firenze e Prato. Subito si rende conto che la maggiore ingiustizia sta nel non possedere la parola:
…ho iniziato il mio apostolato facendo scuola perché come parroco ho l’incarico di predicare il Vangelo. I miei parrocchiani non mi intendevano perché non erano capaci di un discorso lungo e complesso, di una lingua sufficiente per ricevere le spiegazioni del Vangelo. Allora ho fatto scuola per eliminare il problema della lingua. Poi alla fine è successo che mi sono innamorato di loro e mi è cominciato a stare a cuore tutto quello che sta a cuore a loro e tutto quello che per loro è bene. E il loro bene è fatto di tante cose: dall’impegno sociale e politico a quello religioso, fino alla cura della loro salute…”
La vicinanza e la condivisione con la gente del suo popolo gli permette di arrivare alla consapevolezza che:
la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo, ma si misura dal grado di cultura e sulla funzione sociale” “La parola è la chiave fatata che apre ogni porta. Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua.
Da qui la scelta della scuola:
Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e religiosa.
La parola diventa per don Lorenzo non solo la possibilità di comprensione ma anche luogo esemplare di dignità. Egli è convinto che la persona può realmente essere “libera” soltanto se rompe la cappa della propria ignoranza e della propria incapacità di far valere le proprie ragioni. Anche dal punto di vista religioso. La scuola serale popolare di Calenzano, aperta a giovani operai e contadini, dalle cui aule viene tolto il crocefisso per permettere ai comunisti di entrarvi senza problemi, è vista, da don Lorenzo, come possibilità per evangelizzare.
E’ tanto difficile che uno cerchi Dio – scriveva in Esperienze pastorali – se non ha sete di conoscenza. Quando con la scuola avremo risvegliato nei nostri giovani operai e contadini quella sete sopra ogni altra sete o passione umana, portarli poi a porsi il problema religioso sarà un giochetto. Saranno simili a noi, potranno vibrare di tutto ciò che fa vibrare noi. Tutto il problema si riduce qui, perchè non si può dare che quello che si ha. Ma quando si ha, il dare viene da sé, senza neanche cercarlo, purché non si perda tempo. Purché si avvicini la gente su un livello da uomo, cioè a dir poco un livello di parole e non di gioco. E non una parola qualsiasi di conversazione banale, di quelle che non impegna nulla di chi la dice e non serve a nulla in chi l’ascolta. Una parola come riempitivo di tempo, ma parola scuola, parola che arricchisce.
Nel 1954 viene trasferito a Barbiana, sotto il monte Giovi, nel Mugello. Agli occhi di chi sale oggi, pare un piccolo pezzo di paradiso, al di là dei confini del mondo. Barbiana non è un paese: si vedono la chiesa, la canonica, più sotto il cimitero e poco altro. La casa più vicina ad almeno mezzo chilometro, le altre sparse per i monti.
Al tempo di don Lorenzo, il posto stava per essere abbandonato dalle ultime famiglie di montanari che sentivano l’attrazione delle fabbriche poste a valle. La diocesi aveva già deciso di lasciare incustodita la piccola chiesa di sant’Andrea: la riapre solo per l’arrivo di don Lorenzo. Il giorno dopo il suo arrivo, apre subito la scuola, stavolta destinata ai bambini. Anche lì, nella piccola stanza -ancora oggi tappezzata di carte geografiche – senza riscaldamento, coi ragazzi attorno al tavolo dodici ore al giorno a discutere sui giornali, a confrontarsi con le questioni mondiali, a leggere insieme i testi di Gandhi, l’apologia di Socrate, don Lorenzo vive il tentativo profondo, vissuto nella carne, di dare la parola a coloro ai quali era stata tolta o negata.
Ancora una volta lo fa da prete, convinto che dare ai poveri la capacità di usare la parola è rendere possibile il fatto che possano davvero ascoltare la Parola e creare quindi le condizioni per poter essere autenticamente uomini:
Se io prete mi interesso della tua istruzione, non è per farti propaganda, ma perché ho la certezza che allargando la tua mente a qualsiasi cosa bella, vera e buona, farò cosa grata al tuo Dio che te l’ha data per questo.
E un giorno esclamerà: “La scuola mi è sacra come l’ottavo sacramento”. Una scuola esigente, aperta 365 giorni l’anno (366 negli anni bisestili), dalle otto del mattino alle sette e mezzo di sera, con una piccola interruzione per mangiare, senza ricreazione e nessun gioco. Solo lo sci d’inverno e d’estate i tuffi, in una piccola piscina costruita dai ragazzi appena fuori la canonica, che oggi visitatori e pellegrini possono vedere.
Cercasi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande. Io lo conosco. Il priore me l’ha insegnato da quando avevo 11 anni e ne ringrazio Dio. Ho risparmiato tanto tempo. Ho saputo minuto per minuto perché studiavo. Il fine ultimo è dedicarsi al prossimo. Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte”.
Così si esprimevano i ragazzi di Barbiana nella famosa Lettera ad una professoressa. Il sapere ha senso nella misura in cui è condiviso. “Il sapere serve solo per darlo”, ripeteva spesso don Milani. Contro le tentazioni dell’individualismo e perfino del sapere in sè.
Abbiamo scoperto che amare il sapere può anche essere egoismo. Il priore ci propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del prossimo. Per esempio dedicarci all’insegnamento, alla politica, al sindacato, all’apostolato o simili.
Non a caso, coloro che salivano a Barbiana trovavano, appeso al muro della stanza, un cartello con la scritta I CARE, che era il motto, intraducibile, dei giovani americani che si battevano nei campus universitari: “Mi sta a cuore, mi interessa”. Oggi il cartello c’è ancora. E’ sbiadito ma è subito evidente nella stanza dove vi sono due grandi tavoli e una decina di sedie impagliate. piena di libri, nella quale, ogni giorno, il priore e i ragazzi più grandi facevano scuola.
Sull’altra parete vi era invece scritto un breve componimento di un bambino cubano: “Yo escribo porque me gusta estudiar. El nino que no estudia non es buen revolucionario”. (Io studio perché mi piace studiare. Il ragazzo che non studia non è un buon rivoluzionario). La passione civile, l’impegno politico, l’amore per le cose serie della vita, lo schierarsi sempre, a qualsiasi costo, contro l’ingiustizia sono lo “statuto” della scuola di Barbiana.
Non vedremo sbocciare dei santi finche non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale.
Perché se è vero che la scuola deve provocare e farsi provocare dalla vita e dalla storia è vero pure che essa non può rimanere indifferente o neutrale. Anche perché la neutralità coincide quasi sempre con la conservazione delle logiche dominanti.
Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”.
Una scuola quindi tesa alla formazione di una coscienza critica (due ore al giorno, a Barbiana, erano spese nella lettura dei giornali), capace di mettere in discussione idee secolari, disponibile (si pensi alla lettera ai giudici!) a ricostruire una memoria storica diversa da quella proposta e consacrata nei tempi. Una scuola che non occulti il conflitto ma, mostrandolo, dia le condizioni per una possibile gestione e un suo superamento. Tutto ciò in modo nonviolento, con un’arma nobile e rivoluzionaria: la parola. E’ qui che nasce la celebre risposta ai cappellani militari di Toscana che avevano definitivo “vili” gli obiettori di coscienza; è qui che matura la riflessione sulla scuola italiana che separa, ancora di più, i Gianni e i Sandri, figli di contadini e operai, dai Pierini, figli di medici e laureati.
Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio ad averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola.
In questa frase vi è, in sintesi, tutto il senso dell’impegno di don Milani. Molti hanno messo in discussione il presunto autoritarismo della scuola di Barbiana, tutta giocata sulla verità e sull’assolutezza del maestro. Don Milani non ha mai negato ciò ma ha sempre ribadito che la sostanza del rapporto gli interessa più dei modi per gestirlo.
Disciplina e scenate da far perdere la voglia di tornare.. Però chi era senza basi, lento o svogliato, si sentiva il preferito. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui”. Ancora: “Abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.
E’ quello che non capisce la professoressa, destinataria della famosa Lettera, alla quale i ragazzi ricordano che
Non vi è nulla di più ingiusto che fare parti uguali tra diseguali”.
“Severamente ortodosso e disciplinato, nessuno può accusarmi di eresia o di indisciplina. Nessuno di aver fatto carriera. Ho 42 anni e sono parroco di 42 anime…io sono parte viva della chiesa, anzi suo ministro…
Credo che non si possa capire fino in fondo l’esperienza di don Milani se la si estrania dal contesto e dalla scelta sacerdotale. Se c’è qualcosa di eccezionale in lui sta proprio nel criterio di chiarezza e di semplicità con cui, di volta in volta, egli ha collegato le sue decisioni più coraggiose alla sua qualità di sacerdote cattolico. Prete – e prete fino in fondo – don Milani si è sempre mosso con la coscienza che è dalla Parola che nasce il giudizio sul mondo e sulle cose. Con essa, guarda il povero “concreto”, quello dei “trecento metri” come diceva lui (“Perché se offrissi anche un amore disinteressato e universale, di quelli di cui si sente parlare sui libri d’ascetica, smetterei d’essere parte vivente di un popolo di montanari: e questo privilegio non lo cederei per tutto l’oro del mondo...”). E si rende conto che lo scarto tra la realtà e il sogno di Dio raccontato dalla Parola è troppo grande.
Da buon israelita vede il mondo come “altro” dal piccolo resto che guida e da buon profeta non può non alzare la voce. Sempre e in ogni caso, perché nessun progetto politico potrà esaurire fino in fondo il desiderio di giustizia che un credente porta con sè. Dirà a Pipetta, il giovane comunista:
il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, installato insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò con te. Io tornerò nella tua casupola piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al Signore crocefisso… Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di Cristo: beati i… fame e sete”.
Me lo ha ripetuto spesso Maresco Ballini, un “ragazzo” di San Donato poi sindacalista, poi animatore instancabile del “Gruppo don Milani, morto un paio di anni fa: « Quello che molti ancora non capiscono è che il suo obiettivo primario era l’evangelizzazione. Diceva spesso: ‘Dio non mi chiederà conto del numero dei salvati del mio popolo ma del numero degli evangelizzati’”.
L’opera educatrice che don Lorenzo compiva pazientemente su ciascuno era quella di predisporre i non credenti a non rifiutare la fede che Dio offre ad ogni uomo e impegnare i credenti ad essere più coerenti e a stare in grazia di Dio. Non a caso i lunghi colloqui personali che si svolgevano frequentemente, quasi sempre per iniziativa di don Lorenzo, si concludevano con la confessione. Il resto, le necessità umane, compresa quella della istruzione, erano secondarie anche se da lui vissute con la cura e l’apprensione di padre.
Un credente, dunque, che è stato, anzitutto, uomo e sacerdote, maestro e profeta, pronto con la Parola ricevuta a giudicare il mondo, convinto che nella passione di Dio viva quella per l’uomo. Scriverà infatti nel testamento:
Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti con voi. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto sul suo conto. Un altro abbraccio, vostro Lorenzo.