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Ancora sui preti “tremendamente soli”. Ancora dibattito

Da laico nella città. Rubrica a cura di Daniele Rocchetti
Ultimo capitolo delle molte restituzioni ricevute da tanti amici preti e relative all’articolo di un paio di settimane fa. Questioni che sarebbe bene affrontare e non lasciare eluse. Rimuovere non significa risolvere
I tempi sono cambiati, ma compiti e competenze sono rimaste uguali. Anzi sono aumentati

Qualche settimana fa ho letto su un altro blog (www.vinonuovo.it) un articolo di Sergio Benedetto che richiamava alcuni dei temi affrontati da Daniele. Dove si scriveva che i sacerdoti generosi sono sempre più gravati di pesi, attese, compiti, incarichi. In una Chiesa che, a livello gerarchico-locale, troppo spesso si fa vincere da timori e scarsa profezia, e che quindi si impaluda nell’immobilismo (in attesa di cosa?), al sacerdote è richiesto, mediamente, tutto quello che si chiedeva trent’anni fa, quando i numeri e le risorse (e l’umanità) erano differenti.

In un mondo e in un vissuto mutati, la struttura della parrocchia e i compiti che al responsabile della stessa vengono demandati sono rimasti identici, a volte irrealisticamente identici, con l’aggravio della moltiplicazione dei compiti stessi. Mentre la parrocchia rimane ferma nel suo clericocentrismo teorico di fondo — al di là di pochi mutamenti non sostanziali — e mentre il numero dei preti cala drasticamente, ciò che è richiesto al sacerdote, dall’alto e dal basso, è di fatto uguale a decenni fa.

E la gerarchia, salvo rare eccezioni e qualche timido e recente passo, all’atto pratico chiede al prete sempre più, oltre quello che ragionevolmente si potrebbe pensare. Amministrare una comunità composta da numerose parrocchie, aumentandole via via, senza modificare questioni giuridico-amministrative diventa un atto disumano. Fare leva solo sull’obbedienza, la responsabilità, la generosità di coloro che già si spendono non è una strada percorribile a lungo: è disumanizzante, è antievangelica. Pensare al sacerdote come a un ‘samurai’ che deve lavorare, soffrire in silenzio, consumarsi, e alla fine sorridere e cantare le lodi al Signore significa ignorare la dimensione umana della persona e, pertanto, vuol dire fare del male alla persona. Chi custodisce l’umanità, l’equilibrio, la vita del prete?

Fa male la situazione di presbiteri che non dialogano, non discutono, non si confrontano

Credo che in questo momento di grandi cambiamenti non dobbiamo perdere di vista le persone in questo caso proprio l’operatore pastorale, il prete con le sue debolezze ma anche la sua generosità. Mi pare che oggi più che mai sia importante riconoscere che il Vangelo è la splendida notizia di Dio che si intenerisce verso L’uomo, che piange. Dio non sa contare e incontra ad uno ad uno i suoi figli facendoli sentire preziosi, ma tra gli altri. Oggi credo che in questa situazione così complessa e difficile i preti rischiano di essere non adeguati a quello che stiamo vivendo, di essere confusi e di continuare a rimpiangere modelli oberati di impegno per rispondere a troppe richieste.

Recuperare invece una serena appartenenza a questa storia umana per la quale Dio è disposto a morire e a dare tutto se stesso e a scommettere ancora sul futuro per i suoi figli. Ripensare allora le forme del ministero del prete, garantire prossimità, attenzione nei momenti significativi dei passaggi e e provare a immaginare il modello di chiesa di domani per cui preparare oggi il prete e accompagnare la transizione senza perdere mai di vista le persone. Le sfide significative potrebbero essere queste. La prima, la vicinanza e interessamento alle storie personali, proponendo forme di vita comune, e di accompagnamento nei passaggi pastorali per non essere soli nelle decisioni che poi dobbiamo prendere. Forme nuove di ministero e riscoprire il valore di importanza della teologia non solo come scuola di formazione dei nuovi presbiteri, ma anche come luogo di studio di discernimento e di dialogo con la cultura di oggi, e la necessità di attivare laboratori di formazione pastorale per i laici delle nostre comunità, nei diversi settori della vita ecclesiale.

A volte fa male la situazione attuale di presbiteri che non dialogano, non discutono, non si confrontano, rinunciano per principio a momenti preziosi di assemblea. La situazione attuale anche diocesana potrebbe essere caratterizzata da una maggiore sinodalità, e da un confronto costante tra le diverse componenti delle nostre comunità, e dai preti che non possono essere soltanto accusati soltanto di tenere il carisma, ma di un coinvolgimento invece più profondo e reale.

Proviamo a immaginare di affidare tutta la gestione dell’amministrazione e delle strutture a una società creata apposta

La rappresentazione tracciata della condizione in cui versano i preti è di evidenza drammatica. Per loro stessi e per la Chiesa intera. La quale o sarà “spirituale” o non sarà. Sembra di trovarci in condizioni analoghe a quelle della prima Chiesa quando si è deciso di imporre le mani ai “diaconi” tra i quali figurava Stefano, perché gli Apostoli potessero dedicarsi alla preghiera e alla Parola.

“Il padre di famiglia ha una caldaia, io ne ho tre!”… Il parroco oggi ha responsabilità amministrative e penali, cui non può far fronte per impreparazione, tempo, discontinuità rispetto al suo essere pastore… Con il rischio del conseguente ‘burn out’. Che fare?

Forse è possibile pensare ad una forma di accentramento in seno alla Diocesi, costituendo una Società allo scopo costituita, dotata di mezzi finanziari allo scopo, e di qualità manageriali necessarie, nonché di personale addestrato e scelto, che si assuma tutti i compiti amministrativi e di gestione delle parrocchie: non solo le caldaie, ma i bar, le assicurazioni degli oratori, degli asili parrocchiali, delle manutenzioni degli ascensori e dei tetti…

C’è un lavoro enorme, che potrebbe essere svolto da un soggetto societario unico ad esso deputato. Come finanziarlo? Non ho idea ma si potrebbe pensare a qualcosa come il Sostentamento del clero… I Parroci verrebbero sgravati da questi impegni oppressivi, le spese complessive, gestite meglio, sarebbero più contenute, maggiore la garanzia dell’adempimento corretto dei vincoli di legge… Che ne dici? Ti pare un’idea strampalata?. Affidarla a un Luigino Bruni, forse potrebbe essere presentabile…

E’ importante condividere con i laici, curare le relazioni con loro, non tenere in piedi distanze “sacrali”

Sono cresciuto fin da piccolo con l’idea che il parroco fosse il detentore del potere in una parrocchia, tanto è vero che quando si parlava di parrocchia – anche nella richiesta di elemosine – si diceva: per il parroco. Gli anni di seminario puntavano sulla vita comunitaria, ma un po’ per sensibilità, un po’ per un pensiero condiviso con altri compagni, lo ritenevo come uno specifico del fatto di essere lì, in seminario, insieme ad altri, ma in fondo aspettando il tempo in cui sarei diventato prete per non avere più questa vita comune e gestirmi la mia vita.

Poi, fortunatamente le ultime esperienze in parrocchia, prima di diventare prete, e quella da prete, mi hanno portato a comprendere la vita del prete in equilibrio – precario però – tra la solitudine e la vita comune con le persone. Ho incontrato laici che si sono occupati, con dedizione, non tanto di ciò che ritenevo non specifico del prete e mi ritenevo incapace a gestire, ma di ciò che, di fatto, era loro: la parrocchia, le sue strutture e la gestione di queste, per quanto il parroco ne abbia la responsabilità, appartengono alla parrocchia. Trovare laici corresponsabili mi ha aiutato e mi sta aiutando anche adesso, a non sentirmi gravato sotto il peso di compiti per i quali non ho competenze.

Quanto alla solitudine, percepisco la fatica a creare fraternità presbiterale. La nostra storia di chiesa bergamasca e la figura di prete da sempre vista sotto un certo profilo come “autonomo” nella sua parrocchia, ancora si fa sentire. Credo però che sia importate per me poter condividere con laici della comunità, il quotidiano mio e loro. Creare con loro buone relazioni umane, saltando quella distanza, se non sacrale, almeno legata al “ruolo”, che non mi è mai appartenuta. Questa forma di ascolto reciproco e di condivisione mi fa sentire meno solo.

Adesso trovo il tempo per fermarmi, guardare la parola sacra e capire che Dio basta

Voglio provare a scrivere due righe partendo dalla mia vicenda personale. Posso dire che per tanto tempo, forse per troppo tempo, ho vissuto di questo strano ritornello: come sacerdote mi sento solo, la vita comune del presbitero è una buona soluzione. Il ritornello non finiva qui ma si concludeva con: certo che la diocesi deve creare le condizioni per costruire e accompagnare la vita comune di noi preti. Un po’ critica, un po’ vittima, un po’ incapace di decidere.

E il ritornello con sfumature diverse si ripeteva ogni qualvolta emergeva quella che io chiamavo solitudine. Non metto in dubbio la validità e le osservazioni della ricerca presentata nell’articolo. Quello che la vita mi ha riservato è stata la possibilità di sperimentare la vita comune. Con amici, con preti, con famiglie.

Quello che mi porto dietro è la consapevolezza che la vita in qualche modo va presa in mano e vissuta, anche la vita sacerdotale. Non ho problemi ad affrontare le questioni economiche e burocratiche oppure la questione della caldaia che non va. A volte si fa anche questo. Quello che ho imparato e che mi ha fatto uscire da questo circolo strano della critica-vittima e non soluzione del problema, è stato questo: dopo aver corso per tanto tempo, adesso trovo il tempo per fermarmi, guardare la parola sacra e capire che Dio basta, Dio Padre mi accompagna, non sono solo.

L’importante è che ogni giorno io devo tornare alla sorgente del mio vivere, nel silenzio del tempo rubato alle mille cose da fare e che a volte faccio, pur di fuggire a quell’incontro silenzioso con la parola sacra. Ho imparato a lasciarmi aiutare da amici che mi circondano e che mi risolvono un sacco di questioni, mi lascio aiutare, che è ben più difficile che aiutare.  in pratica non voglio più ripetere un altro di quegli schemi classici che mettono in crisi i preti: devo delegare, ma devo dirigere, più semplicemente facciamo insieme e mi fido dei miei amici. A volte riemerge la solitudine, ma non mi sento solitario, mi sento circondato da forze buone e allora riemergo dalle mie fatiche e riparto.

Diciamo che sono contento di essere prete e prete così. La conclusione è questo clero, laici o semplicemente cristiani? Ma questo è un altro tema. 

Mi sento uomo come tutti

Posso dirti che non sopporto più l’eccessiva enfasi sulla nostra figura di prete? Mi sento uomo come tutti, con tante soddisfazioni ma anche molte fatiche che non riesco né posso raccontare con libertà. Rinchiuso in un ruolo che mi impedisce, quasi sempre, di essere autentico, di mettermi in gioco per quello che sono veramente.

Dovrei ogni volta mostrare di essere “Superman”, senza pieghe e incrinature. Quando mi incontro con i miei confratelli la narrazione si muove sempre su due registri contrapposti: o il pessimismo cosmico (che in qualcuno è diventato una specie di cinismo rassegnato) o la sublimazione della storia concreta.

Forse è la reazione a carichi troppo pesanti, forse è l’incapacità di trovare il bandolo di una modernità che ci ha destrutturato e tolto dal centro del villaggio, forse è una preparazione, spirituale ma anche teologica, che non è stata del tutto adeguata o che comunque è incapace di aiutarci a stare dentro con fiducia nel tempo presente. Anche qui, come in tante altre parti, servirebbe un confronto ecclesiale più aperto e sincero, soprattutto con i laici e le laiche.

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