Dalla “Leggenda del grande inquisitore” Dostoevskij
Il crudele inquisitore condanna Cristo, volto di Dio, per il pesante fardello della libertà che ha donato agli uomini.
“Tu, Cristo, hai stimato troppo gli uomini, perché essi sono schiavi”.
“Tu hai caricato l’uomo di un peso insopportabile”.
“L’uomo ha paura della libertà”.
“Tu, Dio, devi dare loro il pane”, (panem et circenses direbbero i Latini).
“Questo è il miracolo che vogliono”
Sono parole amare che mettono in luce un effettivo problema perché la libertà è spesso vissuta come una realtà sofferta, tormentata. La sua realizzazione non è scontata e incontra fratture, ostacoli, scontri di pensiero. Levinas parla di “ difficile libertà”, non solo in quanto è una sfida ai determinismi, ai dogmatismi, ma perché essa non riceve la stessa comprensione fra il ricco e il povero, fra un occidentale e un orientale, fra chi comanda e chi esegue.
Tutto vero: la libertà presa in se stessa finisce di essere un’astrazione, se non la si contestualizza. Infatti non è un possesso inerente alla natura dell’uomo, ma lo diventa via via che cadono le catene che lo tengono imprigionato. E non è data una volta per tutte.
Paolo scrivendo ai Galati dice: “Alla libertà Cristo ci ha liberati” (Gal 5,1).
La libertà è sempre un divenire, c’è sempre un ricominciamento.
Nel mondo ebraico-cristiano manca la concettualizzazione della libertà, tanto che questo sostantivo non appare mai nel Primo Testamento e raramente nel Secondo se non in Paolo e Giovanni.
La Scrittura di Israele “dice” la libertà raccontando una storia, l’esodo, la liberazione degli schiavi dall’Egitto, per volontà di un Dio liberatore e salvatore.
Questo è il magistero biblico della libertà. Non un concetto, ma una relazione il cui soggetto è Dio che, per mezzo di Mosè interviene in un tempo e in uno spazio definito. In una massa senza volto di schiavi, egli scardina la loro vita, li costruisce come popolo e si lega a loro con un’alleanza dischiudendo un futuro di speranza e di benedizione.
L’Esodo diventa allora il paradigma di ogni altra liberazione, da tutto ciò che inquina l’uomo, lo aliena fino a fargli accendere ceri all’antico faraone rimpiangendo i bei tempi in cui si stava “attorno ai pentoloni di carne e si mangiava pane a sazietà”.
Sì, perché non è facile essere liberi.
Un passo avanti. Si tratta tuttavia di una libertà che non sfocia in arbitrio, ma nella strutturazione di una vita in-formata alla volontà di Dio e che si costruisce sul paradosso “liberi per servire”, un impegno assunto da uomini, ora sì, liberi e responsabili.
La liberazione ha un senso se è diretta a un telos, perché non è solo “libertà da”, ma anche “libertà verso”. L’uomo non è chiamato alla passività, all’indifferenza, ma è chiamato ad attraversare quel deserto, simbolo spazio-temporale della vita, allusione alla difficoltà della condizione umana, e pure luogo teologico-antropologico della liberazione, dono di Dio, che chiede di essere incarnato là dove c’è ingiustizia, oppressione.
L’idea biblica che la liberazione impegna al servizio implica un accrescimento di responsabilità e, anche, per usare un termine fuori moda, di dovere.
Il Dio della libertà pone fiducia nella sua creatura e affida all’uomo di porsi come “segno” di liberazione. Non una religione rinchiusa in recinti spirituali, in un individualismo narcisistico, una religione che diventa “oppio dei popoli”.
Perché la salvezza di Dio si realizza già ora nei frammenti della liberazione umana e si colloca nel nostro oggi sempre dentro una visione critica, altrimenti tutti i “faraoni” possono essere giustificati e noi con loro in una forma di autoassoluzione deresponsabilizzante.
La tragedia che si sta consumando in questi giorni, ci chiama a metterci in gioco, ci interpella a un giudizio, all’intelligenza della fede nella fatica di capire, nella ricerca che non si può esaurire nella applicazione di un’etica che vuol essere equidistante, che non si compromette e che ci fa stare tranquilli.
La fede non può restare estranea a quel mondo di oppressi che sono i destinatari del Dio dell’Esodo, là dove il giudizio di Dio si mantiene libero, svincolato dai luoghi comuni, anche dai giudizi morali, da acquietanti credenze teologiche e si schiera verso le vittime della tracotanza tirannicida e lì opera la liberazione attraverso i novelli Mosè..
Occorre “osare” con fermezza e determinazione contro quello che il papa ha definito un “massacro inumano e sacrilego”.
Vedi anche: “Che cosa è la pace”.