Poco più di un mese fa, scrollando la pagina di Internazionale, la mia attenzione è stata richiamata dall’articolo di Annamaria Testa, La gran voglia di tirare i remi in barca . Mi sono soffermata a leggere e rileggere quel titolo, prima di scendere nella profondità nel testo, confusa e incapace di decifrarne il significato, spaesata di fronte al suo messaggio di apparente rassegnazione.
Mi sono ripetutamente chiesta il motivo della mia reazione di fronte ad un titolo per nulla distante da quelli della cronaca (inter)nazionale dell’ultimo decennio. Di fatto, in quella cronaca, l’immagine della barca è stata per lo più associata a notizie di tentativi di approdo delle coste italiane, viaggi in mare dall’esito incerto, carichi di rassegnazione presente e aspettative future.
Perché mai avrebbe dovuto turbarmi l’immagine di una barca quale metafora di rassegnazione, dopo quasi due anni di pandemia, durante i quali la stessa metafora ha descritto l’incertezza presente e la rassegnazione futura manovrate dall’andamento, a tratti ancora indecifrabile, di un virus?
Di primo acchito, l’espressione tirare i remi in barca mi è sembrata una resa, la raffigurazione di chi ammette la sconfitta. Chi salpa dalle coste mediterranee meridionali, pur conoscendo l’esito incerto della traversata che lo aspetta, sceglie in ogni caso di intraprendere il tristemente noto viaggio della speranza. Come scrive la poetessa Warsan Shire,
Nessuno mette i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra.
La comunità scientifica internazionale non avrebbe intrapreso la corsa alla scoperta del vaccino più veloce della storia, né i governi mondiali avrebbero imposto strategie di contenimento del virus, senza la speranza di arginarlo. Senza la speranza di ritrovare la rotta per approdare verso un nuovo futuro.
Se non si arrendono coloro che letteralmente affidano la propria vita al mare, se non si arrendono coloro che nella tempesta epidemiologica si orientano con la bussola della scienza, perché e soprattutto chi dovrebbe rassegnarsi?
Dopo essere scesa in profondità dell’articolo di Testa, sono riemersa, respirando a pieni polmoni per quella rassegnazione soltanto apparente. La rassegnazione di cui scrive, infatti, è la cosiddetta great resignation, la grande rinuncia fatta di scelte necessarie per alleggerire il quotidiano dalla logica dei costi irrecuperabili e riempirli di quella dei costi opportunità.
Tirare i remi in barca, allora, non significa arrendersi. Non è il destino di chi finisce per ritrovarsi disorientato a vagare senza meta, condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo, invece che viaggiare guidato da una bussola. Al contrario è la metafora della coraggiosa consapevolezza per cui è auspicabile viaggiare leggeri, caricando la barca soltanto dell’essenziale prima di prendere il largo.
Tirare i remi in barca, allora, non è un messaggio di rassegnazione per questo nuovo anno che si avvicina, come della terra ferma sempre lontana per essere raggiunta. Piuttosto è un messaggio di speranza per chi, benché ancora troppo lontana la prossima meta, come del resto il prossimo futuro, sappia godersi il viaggio in ogni suo istante.
Tirare i remi in barca si trasforma così nello stile di coloro che in un tempo di incertezza storica e scientifica, sanno riconoscere ciò che conta. Travolti dalla tempesta mediatica, tirano i remi in barca coloro che si lasciano animare dalla curiosità di ricercare la verità, senza accontentarsi di assordanti slogan superficiali.
Sedotti dall’onnipotenza dell’acquisto compulsivo, tirano i remi in barca coloro che ricordano che gli invitanti prezzi al ribasso che riempiono gli scaffali dei negozi raccontano storie di essere umani la cui dignità lavorativa è venduta al ribasso, come merce sempre in saldo.
Immersi nello scetticismo scientifico, al punto da dubitare del beneficio dell’unica risorsa in grado di ridurre la letalità del virus, tirano i remi in barca coloro che riconoscono che il progresso scientifico come la fortuna, troppo spesso sottovaluta, dell’essere nati in una porzione di mondo, una fortuna che dovrebbe essere condivisa, invece che calunniata.
Trascinati dalla corrente della liquidità dei confini, tirano i remi in barca coloro che riconoscono l’impossibilità di arginare il flusso di persone che prendono il largo, via terra e via mare, alla ricerca di un futuro migliore e l’importanza di riconoscerli come maestri di umanità.
E, agli sgoccioli di questo nuovo anno, l’augurio per chi come noi crede nella barca e nel mare, non può che essere quello di prendere il largo, con la coraggiosa libertà di tirare i remi in barca.