
In esodo occorre cercare la realtà “con uno sforzo guidato”[1], con un metodo. Il metodo definisce “la postura della mente (di una mente inquieta e appassionata) verso l’oggetto della conoscenza”[2]: primo carattere di questa postura ha da essere l’attenzione, che rende capaci di cogliere il modo in cui la realtà si dà a conoscere, se noi non restiamo rinchiusi nelle conoscenze già disponibili e nelle nostre strumentazioni epistemiche.
Un guardare in cui si sa mettere tra parentesi il proprio io mantenendo una attenzione aperta e raccolta sull’altro
Ogni volta che il pensiero accetta legami alla cui costruzione non ha contribuito rischia di diventare schiavo.[3]Serve uno sguardo che consenta alla mente di rimanere fedele alle cose, attenta al loro apparire, al loro rivelarsi. Un guardare in cui si sa mettere tra parentesi il proprio io mantenendo una attenzione aperta e raccolta sull’altro, una disposizione a non prendere, a non resistere. Uno sguardo attento, appunto, amante.
L’attenzione aggrappata a un progetto già definito, dipendente da un atteggiamento utilitaristico, che dispone in anticipo cosa cercare, apre solo a una ricerca chiusa e limitata. In tempo d’esodo per trovare qualcosa non è necessario cercarlo, serve, piuttosto, essere in ricerca: conoscere non è afferrare, plasmare, non è penetrare il reale ma “apertura ospitale” della mente.
Così la relazione educativa diventa una forma della conoscenza etica: questa, come ci indica Lévinas, si dà nella misura in cui il conoscere salvaguarda l’altro “nella sua trascendenza”. [4] È decisivo andare incontro all’altro in modo da “essere in ritardo”, perché abbia il tempo e il modo di auto rivelarsi nella sua differenza. Così la salvaguardia dell’altro apre un “procedere esplorativo che traccia la mappa del suo metodo nel mentre in cui esplora il paesaggio.”[5] Viaggio esplorativo, intrapresa di cammino. “Ogni metodo è un incipit vita nova”,[6] scrive Zambrano, come ogni relazione educativa. Per stabilire una relazione originaria con le cose “non bisogna cercare” ma assumere “una postura responsiva nei confronti della realtà da indagare”.
Ritrovarsi in esodo in luoghi sconosciuti chiede di abbandonare i sentieri familiari
Certo ritrovarsi in esodo in luoghi sconosciuti chiede di abbandonare i sentieri familiari ed è un po’ come vivere l’esilio ed un certo sradicamento. Nei passaggi dell’educazione servono buone guide e affidabili compagnie. Fare vuoto, indebolire e mettere in direzione le proprie convinzioni e le proprie teorie, permette di conoscere e di ricevere la realtà (perché poveri di conoscenze e spogliati) e di essere con l’altro in una relazione viva, in uno spazio non precostituito.[7]
Per riprendere il cammino dobbiamo lasciarci guardare, superare l’attaccamento alle nostre opinioni, alle strutture e ai pensieri già pensati. Anche dentro di noi si costituiscono “tradizioni di pensiero”, sedimentazioni di prodotti e di forme di conoscenza che diventano come dei concetti d’uso generalizzati. Occorre sapere togliere, saper superare, passare da sradicamento a sradicamento, pensare libero e responsabile. È “sapere del camminare”, costruzione di conoscenze condivise in cammino: modo di costruire l’esperienza, cercare il metodo perché il tempo prenda forma.
In esodo cercare la chiarezza, procedere per scissioni, fidarsi solo dell’evidenza, evitare ciò che è opaco può non essere sufficiente, può addirittura essere fuorviante. Non può aiutare molto a vivere e camminare “una chiarezza che respinge le tenebre, senza penetrare in esse, senza disfarle in penombra, senza aprire squarci di luce”[8]. Occorre piuttosto salvare una codipendenza evolutiva tra metodo ed esperienza, costruire un pensiero contestuale, salvare i fenomeni: è il fatto concreto singolare da pensare, il pulsare originale d’ogni evento; solo dopo andrà assimilato nel concetto generale.[9]
Ma quando l’educazione e l’azione sociale passano per discipline e per didattiche per metodologie e linee guida, presentate come reti fitte, dai nodi sicuri, per “raccogliere” la realtà in categorie, in misurazioni, in proiezioni di possibilità attendibili, allora ci presentiamo posseduti dagli schemi, imprigionati nei sentieri già tracciati.
Una nuova umanità un poco anticipata dal naufrago, dal profugo, dall’esule: senza strumenti ordinari e senza la lingua
Al più proponiamo l’invenzione di ipotesi da verificare come fosse un gioco di potere. Non serve a molto questa postura della mente e del cuore quando siamo chiamati ad abitare terre nuove di un’umanità migrante. Quella umanità un poco anticipata dal naufrago, dal profugo, dall’esule: senza strumenti ordinari e senza la lingua, in ascolto di come la realtà vuol essere conosciuta. Morendo ai propri pensieri già pensati, in una genesi continua di avvicinamenti alla realtà, costruendo un sapere della vita, delle relazioni, del mondo che rischiari il cammino, che sia conoscenza e convivenza insieme. E che sia, insieme, generazione e visione e decisione di nuovo inizio, di nascita.[10]
Forse occorre recuperare una sorta di “povertà originaria” per cercare, per pensare e per agire nella realtà: per entrare nella vita occorre qualcosa che richiama la funzione dell’epoché: l’atto cognitivo del mettere tra parentesi i saperi dati. Educare al pensare è davvero essenziale all’educazione: nel pensare “l’essere viene alla parola”,[11] si rivela all’uomo il suo essere, perché apre a possibilità di essere, di vivere un tempo vivo, nuovo.
[1] I. Lizzola, Educazione e laicità, Cittadella, Assisi 2009
[2] M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano 1996, p 105; id, Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna 1998, p 34; L. Mortari, “Verso un’epistemologia femminile”, in Studium educationis, 2, 2003, Padova, pp 366-367
[3] S. Weil, Quaderni I, Adelphi, Milano 1982, p 134
[4] E. Lévinas, La traccia dell’altro, Pironti, Napoli 1985, p XVI
[5] L. Mortari, “Verso un’epistemologia femminile”, cit, p 369
[6] M. Zambrano, Chiari del bosco, B. Mondadori, Milano 1991, p 15; pp 11-12
[7] Serve indebolire il proprio “imperialismo epistemico”, (vivere quello che Zambrano definisce “il punto privo di qualsiasi appoggio”, punto da acquisire per una vera ricerca.) M. Zambrano, I beati, SE, Milano 2010, p 36; Note di un metodo, Filema, Napoli 2003, p 42
[8] M. Zambrano, Note di un metodo, cit, p 42
[9] L. Mortari, Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in Maria Zambrano, Liguori, Napoli 2006, , p 23
[10] H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1989, p 129; id, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987
[11] M. Heidegger, Lettera sull’”umanismo”, Adelphi, Milano 1995, p 32