Claudio Cancelli e don Matteo Cella hanno accettato un rischio molto forte ritessendo le trame della memoria di quanto avvenuto nel 2020 e nel 2021 nella loro comunità piegata dalla pandemia. Rischio che è sempre presente quando si vive la scelta delle parole per dire la memoria, per provare uno scavo del senso e dei significati. Il tempo di pandemia opera su ogni parola ed ogni concetto, sulla scelta di ogni immagine, una sorta di usura, di sfinimento, di svuotamento dall’interno. Mette a rischio ogni forza e ogni densità, ogni verità e ogni problematicità, ogni capacità di rendere un poco ricco il sentire e un po’ più affinato il riflettere.
A distanza di pochi anni, nel clima ammorbato dalla guerra e dalla voglia di anestetizzare le angosce e i dolori, queste pagine con la loro essenzialità e la loro trasparenza, con la loro vivezza e la loro forza sono un farmaco contro lo sfumare nella tiepidezza e lo sfinire dei colori, contro l’insipidezza retorica di rituali richiami e di rapidi ricordi che restano senza coglimento di un sapere, un sapere per la vita, un sapere della vita comune.
I richiami rituali cercano, spesso, un facile consenso senza alcuna profondità e alcun impegno (ricordiamo l’Erich Fromm di Fuga dalla libertà)[1], o sostengono una caccia al colpevole-nemico più che l’accertamento di responsabilità. Tutto ciò resta lontano dalla tragica severità di quanto donne e uomini, e comunità intere, hanno vissuto. Nella quale hanno trovato dimora anche la bellezza, la bontà e la pietà.
La vita è anzitutto resistenza, vuole continuare e non si ferma, prova a divincolarsi dalla morsa del contagio, anche a negare: lo ricordano bene il Sindaco e il curato. Diversa è poi, nei mesi, la resistenza della quale sarà capace, alla quale sarà chiamata. Presto deve ascoltare, deve fermarsi e accettare, subire e soffrire. La vita non nega più: vede e ascolta, entra in una sorta di “passività” che è patimento, e non solo responsabilità.
Il Sindaco e il curato provano l’esercizio di tenere fisso lo sguardo sul disvelamento o, meglio, sull’emergere in evidenza del cuore stesso dell’umano: la profezia di un convivere, di una convivialità che colga l’attesa di bene. “Dalla prima infanzia fino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, anzitutto, che è sacro in ogni essere umano. “[2] (Simone Weil)
Il silenzio attraversa, sospende e scava i giorni. E i gesti si trovano portati ben oltre le “faccende”, le relazioni ben oltre gli scambi, le attese ben oltre i progetti. Il silenzio apre alla dimensione irriducibile al si dice o si fa, come annota Michel de Certeau.[3] In qualche modo obbliga ad accettare o provare una esposizione, difficile, un ritrovarsi nudi di fronte e con l’altro. Vulnerabili e non del tutto capaci o pronti ad esserlo, perché abituati di solito a nascondere e dissimulare le nudità, come una vergogna.
Si coglie una specie di profezia di quel “legame senza legami” che è un po’ un sogno di bontà e giustizia
Nell’apprendimento ad essere solo ciò che si è, gli uni accanto e di fronte agli altri, nei giorni di pandemia qualche volta ci si ritrova in una certa pace: gli uni nelle mani degli altri, senza troppa ansia di difesa, o troppa aggressività. Fraternità nel silenzio: durerà? Non durerà certo! Non si protrarrà né se ne manterrà l’intensità: non potrebbe essere. Ma ne resta la dimensione d’anticipo, di promessa: per certi aspetti si coglie una specie di profezia di quel “legame senza legami” che è un po’ un sogno di bontà e giustizia, di rispetto e cura. Speriamo che segni le istituzioni e le economie, le tecniche e le professioni, gli scambi e l’uso dei beni. Spetterà a politica, educazione e cultura, poi, la fatica del confronto con le durezze, le resistenze, i conflitti, con i pensieri impoveriti, il ritorno delle indifferenze e delle convenienze, degli “affari propri”.
Quanto prezioso quel silenzio (quanto bisogno di quel silenzio), per fare ascolto, per fondare l’attenzione a ciò che geme, alla vita che geme. E a ciò che in essa muove all’offerta, alla rigemmazione. Esserci non è, raccontano il Sindaco ed il curato, fare chissà cosa, mettersi in chissà quale posizione. È essere lì, dove si è e si vive, nella vita quotidiana e comune, ed esprimervi un “senso spostato” (questa è la parabola) nei gesti, in qualche scelta e messa a disposizione. È la parabola della “obbedienza” e della “presenza” più che della volontà decisa.
Parola, gratuità, cura si rivelano come la vera risposta al male. A quel male che schiaccia ogni donna e ogni uomo che ne è toccato, che li riduce nella solitudine. In una delle tante solitudini, diverse e dure, che si provano con smarrimento davanti al non affrontabile, o alla violenza. Quando non ci si appartiene più. Sì, “da soli non si vive” come diceva la signora quei giorni. Occorre tornare a sentire la risposta a quel “bisogno di comunità” che il corpo prostrato sente.[4]. E la voce del Sindaco ogni sera (meno una), e quella del prete la mattina presto, tengono la delicata e sorprendente forza di un “dialogo” nella distanza e senza confronto. Miracoli dell’umano. Come i racconti buoni, delle esperienze di reciprocità e di incontro messi in circolo sul web, che sono un modo di entrare nelle case, o di ospitarsi nelle case.
Riconciliazione nei dissidi, a volte imprevisti e crudi, tra paura e cura, tra vita ed esposizione alla morte
Le tensioni forti che hanno scosso la comunità, e il mondo, nella fase acuta della pandemia (ed anche dopo, forse soprattutto dopo) chiamano ad un gioco aperto, delicato e profondo di riconciliazioni. Riconciliazione nei dissidi, a volte imprevisti e crudi, tra paura e cura, tra vita ed esposizione alla morte, tra salvaguardia e disponibilità, tra diritto, generosità e offerta; tra impotenza, inadeguatezza e cura della comunità, tra appartenenze strette e vicine e senso della comunità umana (“la stessa barca”). Tra i poteri, le disponibilità, da un lato, e le possibilità e l’impegno a tenere aperta la vita, e la vita a venire.
Riconciliazione è (anche) coltivazione di parole, di dialoghi e di scelte (e delle occasioni e dei luoghi dove realizzarla) che permettano di non far crescere le rappresentazioni di “nemici” e di colpevoli, di non lasciar esplodere risentimenti e rancori. Come avviene nei tempi di crisi e di profonda incertezza. Quando anche la relazione tra le generazioni viene messa a prova, e quando i moventi più forti nel posizionamento reciproco divengono quelli auto interessati, quando i pensieri si fanno lineari, chiusi, meccanici, semplificanti.
La giustizia ha bisogno di riconciliazione perché quest’ultima ristabilisce la verità e di fronte alla verità diventano chiare le responsabilità e le omissioni, le colpe e le indifferenze, le furbizie e le violenze. Di fronte alla verità e al bisogno di rifare di nuovo la convivenza acquistano forza e rilevanza le confessioni e le indignazioni, le pene e gli impegni riparativi e di rigenerazione del vivere insieme. Sono preziosissime le lezioni di Michel Foucault raccolte ne Il coraggio della verità.[5]
Alla luce di questo resta un lavoro da fare con calma ma con profondità negli anni: un lavoro di riconciliazione e verità che tenga viva la domanda: “chi siamo diventati?”, “chi stiamo diventando?”. Provando a tenere insieme memoria e origine, il racconto di quei mesi e il suo seme, il suo lascito.
[1] E. Fromm, Fuga dalla libertà, Edizioni di comunità, Roma 1979
[2] S. Weil, La persona e il sacro, Adelphi, Milano, 2012, p 13
[3] M. de Certeau, La debolezza del credere. Fratture e transisti del cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano, 2020
[4] P. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia, 2015
[5] M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri II, Feltrinelli, Milano, 2016