Mi ha colpito in maniera significativa il fatto che nell’ultimo mese 5 post siano stati dedicati alla galassia lavoro. Riporto i dati. L’Italia ha il record in Ue per i disoccupati che non cercano lavoro; in 10 anni gli italiani over 55 sono aumentati mentre la fascia 15-34 ha perso 1 milione di occupati. Il 42% delle mamme italiane tra i 25 e i 54 anni non ha un lavoro; la metà degli 800 mila nuovi assunti in Italia ha un contratto a termine ed infine il report di una analisi Acli-Iref per cui quasi il 30% dei lavoratori italiani tra i 30 e i 34 anni ha un reddito da povero.
Ma non solo: in data mercoledì 18 maggio su L’Eco di Bergamo si scrive di una ricerca di Confartigianato che riporta 13 mila attività irregolari in provincia e circa 50.000 posti di lavoro in nero.
Da ultimo un illuminante articolo di Aldo Bonomi su Il Sole 24 Ore rifletteva sul nesso tra pandemia e lavoro culturale. Mi ha fatto pensare. Nel mondo si sono persi 10 milioni di posti di lavoro. In Italia il rapporto Bes 2021 ci dice che in 2 anni si sono persi 55mila posti di lavoro. Oltre alle analisi approfondite ho colto un imperativo: occorre ragionare sul ruolo sociale del lavoro culturale.
Sono tutti numeri che fanno pensare. Mettiamoci anche che siano provocatori e volutamente negativi. Mi sembra però di intravedere alcuni confini nitidi in questi dati: la società italiana ha qualche problema con il mondo “lavoro”.
Il lavoro rappresenta forse la gran parte della nostra vita. Per chi lavora full time ma anche per chi ha un contratto part time, il lavoro abita l’esistenza e la dovrebbe nobilitare. Eppure l’impressione di questi dati è la seguente: da un lato sembra non esserci un nesso equilibrato tra salario, lavoro ed ambito privato, dall’altro la disoccupazione continua a rimanere un problema in crescita.
Dentro il lavoro noi costruiamo la nostra identità, diamo forma alle nostre scelte, immaginiamo il nostro futuro. Tutto ciò rimane però una seducente e lusinghiera retorica. La realtà ci testimonia spesso un’ideologia produttivista, volta spudoratamente all’utile e ad un accavallarsi di mansioni che appesantiscono il quotidiano.
Eppure di lavoro in Italia non si parla e non serve andare molto lontano: se confrontiamo anche solo a Bergamo il numero di partecipanti alla manifestazione del 1° Maggio rispetto a quella del 25 aprile non c’è paragone. La questione del lavoro non interessa, eppure sono in tanti a soffrire. Per ingiustizia, per precarietà, per stipendi troppo bassi. E questo dovrebbe scandalizzare. Dovrebbe.
In 21 dei 26 Paesi membri dell’UE esiste la legge sul salario minimo. In Italia ancora no. Le risposte semplici a problemi complessi non possono essere la soluzione, come accenna Artur Bloch. Tuttavia mi azzardo ad affermare, nonostante la mia totale incompetenza in ambito, che non sono più ammissibili certe condizioni e certi stipendi.
Immaginare soluzioni concrete è difficile e forse è compito di chi ci guida. Risvegliare le coscienze è però un’ingiunzione martellante a cui non posso non dare voce.
In fondo lo scrive la nostra costituzione: la Repubblica Italiana è fondata sul lavoro. Speriamo che sia un lavoro degno.
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Bellini