Guerra dei potenti e guerra dei poveri

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I figli dei potenti, ostaggi per evitare le guerre. Un’antica usanza dei Romani.
I populisti si appellano alla “gente”, ma decidono da soli la gerra.
E’ scritto che nei momenti più apocalittici, apparirà il “figlio dell’uomo”: sul dramma scatenato dalla bestialità , si affaccia l’umano

I Romani per evitare lo scoppio di troppe guerre

Nel mondo antico, per evitare che nelle diverse e frammentate regioni dell’Impero scoppiassero troppe rivolte e troppe guerre, i Romani, che erano politici raffinati, prelevavano da quei territori i figli dei re e dei capi locali e li portavano a Roma. Magari davano a loro una educazione romana, e però intanto li tenevano in ostaggio, a garanzia che nei loro paesi non nascessero troppi conflitti. In caso contrario, ci avrebbero rimesso loro, e i loro potenti padri.

i Romani prelevavano dai territori occupati i figli dei re e dei capi locali e li portavano a Roma. Erano di fatto degli ostaggi

La soluzione non era quella che noi chiameremmo la più eticamente corretta, perché quegli ostaggi erano chiamati a garanzia di colpe che non erano loro. E però partiva da una vera saggezza (cioè da una sapienza che viene dalla esperienza) e da un ragionamento logico ineccepibile: erano i potenti a fare scoppiare le guerre perché sapevano che queste erano i poveri a pagarle e non loro. Allora si trattava di rendere deterrente  la guerra per i potenti (i poveri già lo sapevano).

Il figlio di Netanyahu se ne sta in Florida

A ben vedere, la situazione non è molto cambiata. Sappiamo infatti che grandi turbamenti ha suscitato recentemente nell’opinione pubblica, sia d’Ucraina sia di Russia, il fatto che i figli e i parenti dei magnati non andavano al fronte ma si imboscavano nelle retrovie. Sappiamo che tuttora i figli del capo del governo israeliano, Benjamin Netanyahu, feroce bellicista, se ne stanno a studiare in Florida, mentre tanti loro coetanei rischiano la vita. E, più storicamente, ben conosciamo il panorama antropologico della generazione dei soldati americani che morirono in Vietnam: erano per lo più gente del popolo minuto e spesso discriminato (neri e disadattati). 

Le guerre sono proclamate da chi pensa di non doverne pagare il conto, ma di farlo pagare solo ad altri

Insomma: le guerre sono proclamate da chi pensa di non doverne pagare il conto, ma di farlo pagare solo ad altri. Perciò, per evitare (o almeno limitare) le guerre occorrerebbe o farle dichiarare dal popolo (che ci penserebbe su parecchio) o renderle penose per i capi. Ma i potenti, anche quelli che si dicono populisti e che su tutto chiamano in causa la gente, quando si tratta di guerra, non sentono il bisogno di interpellarla, ma si limitanto a interpretarla a modo loro. Si crea un percorso perverso: i politici interpellano il popolo su fatti complessi e tecnici che farebbero bene ad interpretare e mediare confrontandosi nel dibattito politico; decidono invece, da decisionisti, su fatti così essenziali, come vita o morte, su cui il popolo saprebbe bene come orientarsi. Politica all’incontrario: comunque rozza. 

Invece delle guerre, gli scambi, anche quelli sportivi

Riconosciamo che rendere penose oggi le guerre per i potenti, e quindi limitarle, è meno facile, quando le scelte globali sfuggono di mano agli stessi politici e passano sopra le loro teste, nel nome sacro del profitto nel quale si scatenano tante guerre. Occorrerebbe che la politica riprendesse finalmente sull’economia quel primato, che l’economia le cede solo quando ha fallito, non prima. Ma quando ha fallito è troppo tardi. Occorrerebbe almeno – e su questo punto il Papa batte in continuazione – che la politica decidesse di prendere il controllo sugli armamenti, la cui autonoma dilatazione è il vulnus più grave che oggi l’economico infligge al politico, perché è come se sulla ragione prevalesse la forza. Ma quel controllo non può che essere sovranazionale e frutto di trattati, e soprattutto di fiducia reciproca. 

Mai va interrotto il dialogo tra i popoli, a partire da quello sportivo e turistico, che è il più facile e il più popolare

Dal ricreare fiducia si deve partire, nel nome della comune umanità. Quegli ostaggi, figli di potenti, che il mondo antico teneva a garanzia che non scoppiassero guerre, ricevevano anche una educazione comune e rappresentavano anche trait d’union culturali tra popoli diversi. Pensate all’amicizia tra Romani ed Ebrei creata dal principe Ben Hur, ebreo diventato amico dei Romani, perché ostaggio educato a Roma. È un fatto letterario, ma non irrealistico. Va quindi perseguita in ogni momento, anche in quello tragico di guerra, la politica dello scambio, almeno culturale, tra popoli, anche belligeranti; mai va interrotto il dialogo tra i popoli, a partire magari da quello sportivo e turistico, che è il meno ideologico e il più primario; e quindi il più facile, e il più popolare. Deve, insomma, resistere ad ogni costo l’idea di un’umanità comune nel mantenimento di una minimale omogeneità di sentire umano. 

Non a caso, nei momenti più apocalittici, apparirà il “figlio dell’uomo”, per mostrarci che sul dramma scatenato dalla bestialità e dalla materia, si affaccia comunque l’umano. È la speranza che quel Figlio venga anche a preservare il mondo, non solo a decretarne la fine. 

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