Cattolici e politica. Le necessarie distinzioni

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Cattolici e politica. Le necessarie distinzioni

A closeup shot of a person holding up the bible with a blurred background

La DC è finita perché era finito lo “spazio politico” dei cattolici
Il riferimento al Vangelo non basta e non sostituisce la politica
La politica, le sue divisioni, i compromessi

Il contributo di apertura della discussione, proposto da Monaco, conferma con fondati argomenti che il dibattito su cattolici e politica si è esaurito. E non solo perché si è accumulata, nei soli decenni del dopoguerra, una grande enciclopedia sull’argomento, così che aggiungervi un altro capitolo apparirebbe operazione pleonastica. Lo spazio politico unitario dei cattolici si è dissolto con la fine della DC. Fine che è stata l’effetto, non la causa di tale scomparsa. La realtà di oggi è la seguente: essere credenti cattolici, uniti nella Chiesa, ma dispersi su tutti i fronti dello schieramento politico. Ne conseguono due piccole conseguenze: che nessun partito può rivendicarne la rappresentanza; che non hanno molto senso le accuse che spesso si incrociano tra credenti, per le quali uno non può votare Meloni o Salvini o Schlein, senza tradire il Vangelo.

La sfera religiosa e la tensione fra fede ed etica

Si tratta allora di distinguere più rigorosamente le tre sfere dell’esperienza: religiosa, pubblica, politica. 

La sfera religiosa poggia su un nucleo dogmatico permanente, di cui il Credo è l’espressione ufficiale.  Meno permanente, più esposta alle intemperie dei secoli, è l’etica privata e pubblica che se ne fa conseguire. La tensione tra fede e etica è permanente. Ogni epoca presenta delle questioni cruciali, che non è facile dirimere, semplicemente citando il Decalogo o il Vangelo. Oggi sono le questioni bioetiche a stare al centro della tensione. Da quando siamo entrati nel campo minato della manipolabilità tecno-scientifica da parte degli uomini dei meccanismi genetici umani, così che non più Dio, ma l’uomo diventa creatore dell’uomo, non è facile trarre automaticamente precetti etici dalla pura fede nell’Incarnazione, nella Resurrezione, nel Giudizio finale. L’ingresso sulla scena umana dell’Intelligenza artificiale è destinato ad aggiungere ulteriori dilemmi. Elaborare un’etica all’altezza del presente è un’impresa impegnativa.

Il riferimento a Cristo non basta. C’è la Chiesa con le sue differenze, maestra in umanità

Alcuni settori fondamentalisti cristiani, penso ai movimenti carismatici o a CL, se la cavano imboccando una scorciatoia: Cristo non è una dottrina; è una persona, è un’esperienza qui e ora. Di lì viene tutto. Ma, anche supponendo che si possa fare davvero fare una tale esperienza totalizzante, poi la si deve “verbalizzare”, cioè comunicare e condividere. E resta comunque arduo districare, in ciò che chiamano “esperienza”, la dimensione storico-oggettiva da quella soggettiva, carica di ideologia inconsapevole e dei detriti culturali del mondo circostante, spacciati per esperienza originaria. 

Tuttavia, pur nella difficoltà di costruire il discorso etico, il credente ha un vantaggio rispetto al non-credente: che dispone di una comunità di riferimento, di condivisone, di elaborazione delle questioni etiche, la Chiesa. Beninteso, la Chiesa non è mai stata monolitica né sul piano dell’elaborazione dogmatica né su quello della teologia morale. Resta, però, “una Maestra di umanità”, carica di sapienza e di storia, come spiegò un giorno Paolo VI a tutti noi.

La sfera pubblica non coincide più con la sfera religiosa

La sfera pubblica è più ampia della sfera religiosa, non ci coincide più da quando nel ‘500, la Cristianità è andata in frantumi, a livello europeo. La sfera pubblica è quella sfera che sta, nella definizione di Habermas, tra il privato e lo Stato. Sarebbe la società civile hegeliana, se non fosse che in Hegel essa si può costituire come tale sono innervandosi profondamente nello Stato, solo se si lascia sovradeterminare dallo Stato. Il quale funziona da placenta della società civile. Al di là delle più raffinate e necessarie definizioni teoriche, accontentiamoci della società civile gramsciana, con le sue casematte.

È il luogo della pluralità e del conflitto degli interessi, delle idee, delle visioni. Un conflitto che può essere potenzialmente radicale e distruttivo. Diversamente da quanto pensava Sturzo, la sfera religiosa non è affatto universale. Non solo perché frammentata in molte fedi, ma perché, nel caso italiano, è solo una minoranza e non da oggi. La Cristianità di J. Maritain, solo rispetto alla quale si giustificava la distinzione tra l’azione en tant que chrétien e l’azione laico-autonoma en chrétien di “Umanesimo integrale”, ha incominciato a finire nel secondo dopoguerra, proprio negli stessi anni in cui si correva a celebrare l’Anno Santo e Carlo Carretto, presidente nazionale della GIAC, faceva sfilare in Piazza San Pietro i 300 mila baschi verdi dell’Azione cattolica, la sera dell’11 settembre 1948. Già allora quella “cristianità” era contestata tanto da Giuseppe Dossetti quanto da Don Milani, che accusavano l’Azione cattolica, Gedda e molti preti e vescovi di semi-pelagianesimo. Accusa cui si sottrasse Carlo Carretto, prendo la strada del deserto, quella di Charles de Foucauld.

La “cristianità” non c’è più. La “sfera religiosa” è debole

La domanda da porsi è: che ruolo svolge oggi la sfera religiosa cattolica nella sfera pubblica?  Molti cattolici mostrano di credere che il problema sia il deficit di rappresentanza nella sfera politica. E questo deficit viene imputato alla dissoluzione dell’unità politica dei cattolici. Di qui i numerosi e fallimentari tentativi di ricomporla. Di qui le nostalgie. Ma se i credenti non sono in grado di incidere con la propria battaglia culturale nella società civile, come possono pensare di costruire rappresentanza politica? 

Ciò che si deve constatare è la debolezza della sfera religiosa nella società civile italiana. A partire da due trincee fondamentali, quasi sguarnite: quelle dei pulpiti e quella dell’insegnamento religioso nelle scuole, regalato dallo Stato e drammaticamente sprecato. Dietro le quali stanno casematte in rovina: la formazione dei preti nei Seminari e degli insegnanti di religione.  Trincee da attivare per una battaglia culturale: per decifrare i segni dei tempi, per misurarsi senza facili slogan sulle questioni della pace e della guerra, sulle sfide geopolitiche in corso, sulle questioni antropologiche, sul destino incerto della specie. La comunità dei credenti, come parte della società civile, ha il dovere di pensare il tempo storico presente e di proporre la propria interpretazione della storia concreta del mondo, senza timidezze. Se i credenti non proclamano la verità che vedono, diventano inutili.

La sfera politica è il campo più dissestato

La sfera politica resta il campo oggi più incerto e più dissestato.  Il cattolico che decide di “scendere in campo”, di entrare nell’area politica non rappresenta la comunità dei credenti, che intende affermare nella sfera dello Stato e del diritto i propri principi non-negoziabili. È un cittadino come gli altri che si propone di interessarsi al Bene comune, partendo dalla propria fede, vissuta nella società civile.

“Fare politica” non è la stessa cosa che “fare società civile”. E il compromesso diventa necessario

“Fare politica” non è la stessa cosa che “fare società civile”. La politica non è la continuazione della lotta/guerra civile con altri mezzi, non significa fare il sindacalista della propria parte, difendere la propria identità. Fare politica significa porsi dal punto di vista del Bene comune e della costruzione della Città umana. Chi fa politica non rappresenta solo la propria parte, si pone dal punto di vista della tenuta della Città. Concretamente: nella società difendi intransigentemente i tuoi principi, i tuoi valori, i tuoi interessi; fai cultura, generi egemonia. Ma in politica fai compromessi con gli altri. Perché, nell’alternativa tra la radicalizzazione fino alla guerra civile e la tenuta comune dei legami, la politica sceglie questo secondo corno del dilemma: quello di tessere legami. A questo serve il fare politica e il farsi eleggere nelle istituzioni rappresentative.

La difficoltà di porsi dal punto di vista del Bene comune – magari identificando surrettiziamente il proprio bene come il Bene comune – viene da lontano. Giuliano Amato, intervenendo in Parlamento nel 1992, sulla legge di riforma elettorale, affermò che il passaggio dal partito-stato unico del Fascismo ai partiti della Repubblica non aveva rotto con l’ispirazione totalitaria illiberale di fondo. Si tratta della Parte che si si propone e si comporta come il Tutto. Il risultato è la mancata legittimazione dell’altro, il reciproco assedio e l’impossibilità di fare riforme condivise.

I cattolici sono facilitati nella de-assolutizzazione liberale della politica, senza fatalmente finire nel cinismo andreottiano o nell’individualismo egoistico, dalla percezione profonda che hanno del limite ontologico e della fragilità dell’uomo e della storia. La “riserva escatologica” di cui dispongono non serve ad assolutizzare la loro presenza nella storia – come sono tentati di fare i fondamentalisti di ogni religione e di ogni tempo – ma a traguardarla nella sua finitudine e ad attraversarla con speranza. 

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