All’annuncio dell’Amministratore Delegato che il bilancio dell’esercizio appena trascorso si chiude “con un utile, al netto delle imposte, di € tot”: i presenti rispondono con calorosi e prolungati applausi. Questo potrebbe rappresentare il passaggio centrale dell’Assemblea degli azionisti chiamata ad approvare il bilancio di una grande società e a deliberare in merito alla conseguente distribuzione degli utili.
È interessante notare come la norma vigente (in piena coerenza con il vecchio Codice di commercio del 1865 e del 1882) utilizzi il termine “utile”, in contrapposizione a “perdita”, per definire il positivo risultato economico derivante dall’attività aziendale, anzi ne costituisce lo scopo dichiarato: il nostro Codice civile, infatti, prevede che: “Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili.” (art. 2247). Questo articolo riprende quasi testualmente il Codice Napoleonico per il Regno d’Italia del 1807, il quale recitava: “La società è un contratto col quale due o più persone convengono di mettere qualche cosa in comunione, al fine di dividere il guadagno che ne potrà risultare.” (art. 1832).
Interessante notare come dal termine napoleonico “guadagno”, forse un po’ troppo rozzo per noi italiani, si sia passati al più suadente “utile”. Come noto, l’aggettivo utile (derivante dal latino utilis a sua volta dal verbo uti “usare”): oltra al senso di fruibilità di un bene reca anche a quello di proficua utilizzabilità e quindi, nella forma sostantivata, “l’utile” è passato a significare il guadagno, il lucro. L’uso del sostantivo “utile” adottato fermamente dal linguaggio giuridico e finanziario italiano reca in sé, occorre sottolinearlo, uno slittamento semantico con un forte accento valoriale del profitto, del denaro ricavato: è la legge stessa che lo sancisce.
Ecco, quindi, l’utile di una società è riferito esclusivamente al guadagno prodotto e non a quanto di utile possa avere generato l’attività imprenditoriale come, ad esempio, l’innovazione tecnologica, la creazione di posti di lavoro, la tutela dell’ambiente, la crescita produttiva, ma quello che, nonostante tutto il contrario, produca (ovviamente nel pieno rispetto della legge) denaro da distribuire ai soci. Paradossalmente, quindi, un’azienda che non ha fatto investimenti, non ha creato innovazione, che ha licenziato i lavoratori, ha chiuso unità produttive, ma ha garantito l’attivo di bilancio è in utile! L’investitore, almeno quello a breve termine o ancora di più lo speculatore, a cui l’utile andrà distribuito può essere ben soddisfatto.
Molti ricorderanno la lapidaria affermazione di Milton Friedman, premio Nobel per l’economia 1976, il quale in “Capitalism and Freedom” del 1962 affermava che “esiste una e una sola responsabilità sociale dell’impresa: usare le sue risorse e impegnarsi in attività finalizzate ad aumentare i suoi profitti il più possibile a patto di rispettare le regole del gioco, cioè operando in libera e aperta concorrenza senza inganno né frode”.
Il principio enunciato da Friedman nel 1962, certamente in sintonia con una diffusa cultura capitalistica americana (e non solo) dell’epoca, non ci può soddisfare (e forse un po’ ci ripugna) e questo sotto diversi profili.
Ecco dunque che, fermo restando ormai il linguaggio lapidariamente codificato dal legislatore italiano, si sta fortunatamente formando, e in parte affermando, una consapevolezza volta a valutare le imprese anche da altri punti di vista: non come monadi staccate dal contesto in cui agiscono con finalità esclusivamente proprie (Friedman), ma come coprotagoniste e corresponsabili della dinamica sociale nel suo complesso.
E su questi aspetti, e in particolare su un possibile nuovo concetto di utile, parleremo nel prossimo articolo.