Siamo alla fine del IV Vangelo.
Gesù si presenta ai discepoli chiusi nel cenacolo, timorosi, a porte chiuse, per paura dei Giudei.
Una piccola comunità, quella dei discepoli, già menomata: manca Giuda, manca Tommaso. Pietro deve ancora confessare il suo rinnegamento, ma anche i rimanenti non sono da meno.
È una comunità ripiegata su se stessa, come paralizzata.
Gesù risorto appare ai discepoli che non sono comunità di perfetti
Non certo una comunità di perfetti, un po’ come la nostra realtà ecclesiale, dove si possono manifestare chiusure, assenze, defezioni, nostalgie per il passato, stanchezze e cuori sclerotizzati, che non riescono più a palpitare.
Eppure è proprio qui che si incontra il Risorto, come è successo ai Dieci e, una settimana dopo, a Tommaso.
Il Signore si fa presente. Ma non propone riti, celebrazioni, sacrifici, neppure uno stravolgimento di vita. Mostra il suo corpo, il corpo ferito, come luogo di riconoscimento, di verità, che dice la radicalità dell’amore. E qui, nel corpo, domanda di essere riconosciuto da Tommaso, e da ognuno di noi.
Il Cristo, di cui la Pasqua fa memoria, è Colui che “svuotò se stesso assumendo la condizione di servo, fino alla morte e alla morte di croce”(Fil 8,7). La gloriosa kenosi dell’impoverimento di Dio chiede la fede in chi, secondo gli uomini, è considerato un fallito.
Una fede difficile, dove sempre si mescola l’incredulità.
“Credo, ma tu aiutami nella mia incredulità” (Mc 9, 24). È questa l’invocazione che, con un ossimoro neppure tanto velato, il padre del ragazzo epilettico rivolge a Gesù.
Fede e incredulità. Spesso il confine è labile.
La fede non preserva il credente dalla paura del nulla, dalla minaccia della morte, dal non senso, a cui continuamente siamo esposti.
La fede non preserva il credente dalla minaccia del nulla e della morte
D’altronde Gesù, anche da risorto, e direi, soprattutto in quanto risorto, non gratifica in maniera “ragionevole” le attese di chi pone domande, soprattutto la domanda fondamentale, quella del fine della vita. Non ci dà garanzie.
Il divario fra l’evento di salvezza e la modalità in cui questa si è realizzata, è troppo grande.
C’è uno scarto che si deve compiere tra ciò che si pensa di Gesù, il Messia, il Profeta, il Maestro autorevole che agisce con la potenza di Dio, e il modo “scandaloso” in cui Gesù si manifesta.
Tuttavia l’esperienza del dubbio può diventare il banco di prova della sincerità della ricerca. Occorre solo spostare l’asticella, ma non in alto, in basso, accettando la propria incompiutezza, dove il limite che ci caratterizza si rivela il necessario strumento da tener ben stretto, perché lì possa risplendere la grazia. “Ti basta la mia grazia: la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor 12,9).
Tommaso tocca le piaghe, non l’aureola del risorto
Ma è Gesù stesso che ci guida in questa ricerca, quando, anziché rimproverare Tommaso, lo invita a toccare le piaghe (non l’aureola), dove le ferite rappresentano la traduzione esistenziale di un amore senza limiti.
È l’incontro con il corpo di Gesù che provoca il salto del riconoscimento, come era stato per Maria di Nagdala, peri due di Emmaus, o per i discepoli seduti alla mensa dei pesci fritti che Gesù stesso aveva imbandito.
È lì che Tommaso vede il Risorto “Mio Signore e mio Dio”.
“Il Verbo si è fatto carne”. Questa è la nostra fede.
Il Cristo umiliato è il luogo in cui si infrangono tutte le immagini di Dio, gli idoli di onnipotenza a cui gli uomini volentieri si prostrano.
La vera icona di Dio è, fin dalle origini, l’uomo: “Facciamo l’uomo a nostra immagine”, così che si può dire che nella carne del Cristo e di ogni uomo, sofferente per amore e redento per amore risplende l’umanità di Dio.
Ada