Il sussidio di disoccupazione di Gesù

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Due parabole evangeliche hanno un finale sconcertante; quella, cosiddetta, del “figlio prodigo” (Lc 15, 11-32) e quella, meno nota, del “padrone della vigna” (o degli “operai dell’ultima ora”: Mt 20, 1-16). In entrambe sembra scoppiare uno scandalo per una lesione all’equità

Il figlio scapestrato. Gli operai che lavorano un’ora soltanto

Nella parabola del “figlio prodigo” i diritti della giustizia sono reclamati dal fratello maggiore, che trova scandalosamente ingiusto il trattamento di favore riservato dal padre al fratello ritornato rispetto al suo: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ora invece…” (Lc 15, 29-30).

Due parabole difficili. Ed esemplari

Nella parabola del “padrone della vigna” sono gli operai assunti per primi che giudicano scandalosa l’equiparazione della loro retribuzione a quella degli operai assunti solo al pomeriggio, cioè alla fine della giornata lavorativa: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo” (Mt 20,12). Il fedele reprime a malincuore lo scandalo fidandosi dell’autorità del Signore. “Se lo dice Lui”.

Amore e giustizia

Ma la spiegazione più usuale è quella che invita a cogliere la gerarchia che intercorre tra giustizia e amore all’interno del messaggio di Cristo. Però, secondo noi, oltre ad accogliere questa pertinente distinzione, si può lavorare più a fondo anche sullo stesso concetto di giustizia. Se essa, intesa nel senso etico tradizionale, è virtù che “dà a ciascuno il suo”, si tratta di vedere con gli occhi dell’amore e di una sana antropologia che cosa sia quel “suo” che a ciascuno spetta. È quello che si merita ora (e chi lo giudica in pieno?) o quello che merita la sua natura originaria e finale di uomo, fatto “ad immagine e somiglianza” di Dio? Che se del secondo si tratta, il ”suo” che spetta a ciascuno non rientra nella logica valutativa (“ti do quello che ti spetta per qual che sei ora”), ma “ti do quel che ti spetta secondo quello che la tua natura finale richiede”, cioè nella prospettiva finale dell’amore donato senza calcoli. 

 Comunque resta un’innegabile zona di insoddisfazione istintiva nella percezione di una dissonanza tra due realtà, entrambe positive: amore e giustizia. E ci si chiede se non possano anche in questo caso essere declinate congiuntamente, senza infrangere la percezione del senso etico comune.  

Una giustizia non infranta, ma sublimata. “Figlio tu sei sempre con me…”

Già il testo evangelico per la parabola del “figlio prodigo” suggerisce che la stessa giustizia non è infranta, ma, per così dire, sublimata. Il padre della parabola lo ricorda apertamente al figlio maggiore che protesta: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo” (Lc 15,31). Il figlio che resta in casa ha avuto il continuo piacere dell’unione comunionale col padre, anche se egli per assuefazione non l’ha magari percepita pienamente. Il confronto perciò non deve prendere in considerazione solo il finale dei due trattamenti diversi, ma anche il loro insieme.

Il “figlio prodigo” ha sofferto sulla sua pelle il dolore della distanza dalla casa del padre. Il dolore di questo e il benessere dell’altro riequilibrano in qualche modo il senso della giustizia. Insomma: la buona accoglienza da parte del padre ripristina con un risarcimento straordinariamente concentrato quella condizione di dolce relazione che era costantemente e normalmente quella del figlio rimasto in casa. 

La fortuna degli operai che hanno lavorato tutta la giornata

Per quanto riguarda invece lo scandalo della parabola degli “operai dell’ultima ora”, il vangelo rinvia alla rivendicazione da parte del padrone di avere rispettato, per così dire,  le regole di ingaggio, cioè la giustizia legale: “Amico –dice all’operaio della prima ora che protesta-, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene” (Mt 20,13-14). E sembra quindi che, a sanare lo scandalo, non resti che invocare lo scarto insondabile tra giustizia (“do a ciascuno il suo”) e carità (“do a tutti l’amore senza calcolo”): “ Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?” (Mt 20,15).

Ma la conclusione ribalta di nuovo ogni logica quando afferma: “Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi” (Mt 20,16). Perché non invocare almeno una par condicio tra operai ultimi e primi, invece che, addirittura, una preferenzialità verso gli ultimi che hanno lavorato di meno? Qui, a mio avviso, può entrare in gioco il parallelismo con la parabola del “figlio prodigo” e con la festa maggiore che si fa in cielo per il peccatore che si converte. Insomma, con la predilezione per gli ultimi in quanto non più fortunati ma già segnati dal dolore e dalla debolezza.

Tutta la giornata a contatto con il padrone buono

Siamo consapevoli di azzardare, ma ci chiediamo: gli operai assunti per primi non sono stati in realtà già avvantaggiati perché hanno risolto prima il loro problema vitale e dispiegato più estesamente la loro natura attiva, che è più umana dell’inoperosità degli ultimi, che il vangelo chiama argoi, “senza lavoro”? Non sarà che anche i primi operai – come il fratello  maggiore del figlio prodigo – sono già stati gratificati perché hanno più a lungo usufruito della sicurezza e del  contatto col padrone buono? E hanno beneficiato del lavoro, cioè di uno status ben più consono all’essere umano che non la vergogna dell’inoperosità esposta in piazza?

Bisogna considerare l’effetto economicistico del lavoro (per cui chi produce di più merita maggiore retribuzione) o l’aspetto antropologico di realizzazione umana che il lavoro comporta, per cui esso va riguardato come una specie di diritto? Secondo la stessa logica che comanda la privilegiata accoglienza del “figlio prodigo” da parte del padre, potremmo chiederci allora se gli operai assunti per ultimi non siano stati risarciti dal padrone per la loro incolpevole inoperosità e per l’umiliazione, con una bontà maggiore che ha voluto dare a loro una specie di “sussidio di disoccupazione”. 

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Francesco Parimbelli

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