“Da laico nella città” – Rubrica a cura di Daniele Rocchetti
Per più di dieci anni ci siamo incontrati quasi ogni giovedì mattina per la redazione di Evangelizzare, allora una delle riviste di catechesi più significative nel panorama ecclesiale del nostro Paese.
Ci era stata presentata come patrologa, studiosa e conoscitrice dei Padri della Chiesa, ma subito ci siamo accorti che le piacevano le incursioni sui temi di attualità ecclesiale. Ogni volta con uno sguardo acuto e divergente, mai scontato.
35 anni di condivisione profonda con donne e uomini sinti-rom
Sto parlando di Cristina Simonelli, per parecchi anni presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane e docente di Storia della Chiesa e Teologia Patristica in diverse Istituti e Facoltà Teologiche. Con Cristina, dopo la fine della nostra comune avventura editoriale, ci siamo rivisti qualche volta: a Molte Fedi, per una meditatio a Fontanella, e a Bose, in un paio di convegni di spiritualità.
Tempo fa ho letto con piacere un bellissimo articolo scritto per “Donne Chiesa Mondo”, l’inserto dell’Osservatore Romano, dove racconta, da par suo, i suoi trentacinque anni di condivisione profonda con donne e uomini sinti-rom.
“Sono entrata in un campo rom a 20 anni, un po’ per caso e un po’ per sfida, e ci sono rimasta 35 anni. Volevo mettere alla prova il Vangelo, nelle sue frontiere: perché se funziona lì allora funziona anche al centro, pensai. Quando lo dissi a mio padre, lui mi rispose: «Se Dio non esiste, voi siete perduti»: io perduta non mi sono sentita mai.”
E’ il racconto di una vita di una ragazza degli anni Settanta, “asimmetrica, terzomondista, resistente e di quel femminismo respirato per cui ritenevo di non dover essere autorizzata da nessuno”
Alla donna accade ciò che accade alle minoranze
Trentacinque anni sono una vita, eppure, scrive, “ho passato quei 35 anni come un giorno, come un’ora di veglia nella notte, citando il salmo. In un lembo di terra in cui, rifatte le mappe, la vita comune è possibile, promessa di più pacifici universi di vita e di pensiero. Anche le frontiere della comunità ecclesiale avrei voluto abitare permanentemente, perché la chiesa è in se stessa profondità e frontiera, e studiando la storia delle donne mi resi conto che alcune figure femminili partivano corpo a corpo col Vangelo, come se fossero autorizzate dal Vangelo.
Quando mi sono chiesta perché, mi sono risposta che alla donna accade ciò che accade alle minoranze, anche se minoranze non sono: ma è la marginalità imposta che le accomuna e tramuta la quantità (siamo maggioranza) in qualità (siamo ritenute secondarie). A volte sembra che le donne, come i rom, siano oggetti che la chiesa tratta e non soggetti ecclesiali con pieni diritti. Non è così: cambiamo l’idea di centro e di periferia e si vedrà che siamo soggetti a pieno titolo”.
Certo, quando è partita erano gli anni del dopo Concilio, dell’entusiasmo di una fede che doveva essere “gridata con la vita”, che aveva i perimetri del mondo. Come è accaduto a tanti in quegli anni, Cristina voleva partire per l’Africa, ai rom non ci pensava ancora.
Una fede che doveve essere “gridata con la vita”
“Li vedevo per strada e mi colpivano per la loro estraneità e quella loro fierezza, ma niente di più. Ora, a chi mi chiede sempre e soltanto questo, la mia vita con i rom, rispondo, come faceva un’amica, con un brano di Saint Exupery: «Certamente un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola è più importante di tutte voi perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messo sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparato col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi. Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi e vantarsi o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa». Sì, loro sono la mia rosa.”
E dunque la scelta di andare a vivere nel campo rom, ad abitare in una roulotte. Lì a poco a poco matura la scelta di studiare teologia. “Anche nella teologia, tradizionale dominio maschile, sto bene ma mi sento pure un po’ fuori posto: è un mondo che mi consente di incrociare linguaggi diversi, persino molto stimolante, tanto da apparirmi una sorta di principio euristico, un modo di stare al mondo, di abitare la città e anche la chiesa, secondo il principio della mula: «La mula (…) pareva che facesse per dispetto a tener sempre dalla parte di fuori e a metter proprio le zampe sull’orlo; e don Abbondio vedeva sotto di sé, quasi a perpendicolo, un salto o, come pensava lui, un precipizio. “Anche tu — diceva tra sé alla bestia – hai quel maledetto vizio d’andare a cercare i pericoli, quando c’è tanto sentiero”».
“Ho calpestato queste terre, ho abitato questi mondi, per comprenderli. E ho condiviso la vita, le nascite, i matrimoni, le difficoltà, i pregiudizi. Sono loro, i rom ma soprattutto le donne, le romnia , le principali vittime della discriminazione; con loro e per loro attraversi un’altra frontiera che è quella del razzismo perché morte le streghe, morto l’antisemitismo, forse, sono rimaste le zingare rapitrici a nutrire le isterie di cui la società ha bisogno e di cui l’alterità interpretata come minacciosa è stata sempre ottima fornitrice. L’intolleranza e il razzismo non sono scomparsi, e coinvolgono anche le chiese.”
Finito di leggere l’articolo, mi è tornata alla mente una battuta che mi fece una volta don Tonino Bello quando gli chiesi se non gli dava fastidio sentirsi giudicato come un vescovo “anomalo”. Mi rispose di no, soggiungendo subito che “bisogna poi vedere che cosa significa essere anomalo. Introdurre in casa i poveri per farli dormire d’inverno, è anomalo per un vescovo, o non è anomalo il contrario?”
Come a dire che il Vangelo ha un concetto, diverso dal nostro, di centro e di periferia. E da dove sei lo leggi e lo comprendi in modo diverso. Ricordiamocelo, noi che solitamente lo leggiamo dal centro e seguendo il buonsenso. Non è l’unico osservatorio e forse neanche il più privilegiato.