Francesco, cosa resta?

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Un libro di Mario Bertin

Cosa resta? Francesco, cosa resta?

Cosa trova di un uomo la vita di Francesco? Una vita ripercorsa, reincontrata nella sua cronaca, non tanto negli eventi, o nei fatti, o nei grandi incontri.

Il santo di Assisi. La cura della vita e delle cose

Chi segue il racconto di Mario Bertin vive un bellissimo e duro effetto di rispecchiamento. Esigente e delicato scende nel fondo.

Profondo trascendere, come continuo scendere tra gli uomini e nelle cose, inchinarsi e piegarsi. Come vivere di creazione, e di riconoscimento d’essere creati. In quel movimento divino di de-creazione di cui ci parlano gli zaddik delle comunità chassidiche. E Simone Weil. Dio che de-crea per lasciare essere le cose, il mondo, per fare amorosamente spazio a donne e uomini liberi e responsabili nella cura. Ritrazione per amore: nel Francesco di Mario ne troviamo più che il concetto (delle dottrine dello “zim-zum” ebraico), la pratica concreta e i movimenti della vita. Della natività.

I rumori, i suoni, i colori, le durezze e le morbilità della natura serbano e svelano la Parola che crea

I giorni di Francesco, che Mario Bertin sente attraversare la sua e la nostra vita, sono giorni di spoliazione continua, come giri di danza della nudità. Esperienza del corpo, che è ciò che più fatica e s’oppone col suo bisogno, con le sue pulsioni, con la evidenza elementare e immediata del suo desiderio. È un apprendimento del lasciare, del conquistare la libertà della spoliazione, a immagine di Dio, il cammino autoeducativo ed educativo raccolto nelle pagine del libro.

Una paradossale, delicata e nuda cura della vita. Nel proprio corpo, bello e mortale, anzitutto: nella cura della vita è importante ciò che nella prova si diventa più che l’esito.

Ma è anche cura delle cose, della natura, cura del loro essere semplice, donato. I rumori, i suoni, i colori, le durezze e le morbilità della natura serbano e svelano la Parola che crea. Ascoltarle bene è apprendere la parola, umana e terrestre, del rispetto, dell’attenzione, della buona coltivazione. Scrive Simone Weil:

Nel bello c’è qualcosa di irriducibile, come nel dolore fisico. Lo stesso irriducibile. Impenetrabile per l’intelligenza. Esistenza di una cosa altra da me. Affinità del bello e del dolore” (…) “con il dolore e la bellezza il mondo entra dentro di te, nella tua anima (la bellezza) nel tuo corpo (il dolore)” (Quaderni II, p 262)

Il dolore “impastò dentro tutta la sua vita”, scrive Mario di Francesco. Egli lo iniziò a tessere, apprese una nuova maniera di conoscere. “Era nudo”, Francesco, “non sapeva”. Ma quando incontrò il lebbroso “guardava  e si sentiva guardato”, come dal crocifisso di San Damiano. Come dagli uomini “precipitati”, senza vita, laceri e lerci incontrati nel suo pellegrinaggio a Roma. “Si sentì perduto”, sprofondato nel movimento dello svuotarsi per accogliere. Movimento sul limite, dove nascita e morte si toccano: “quando un uomo ha finito allora comincia, e quando sarà consumato allora spererà”, annota Mario Bertin preso da Francesco. Non è sacrificalità o penitenzialità, la povertà: è farsi insaturi, svuotarsi. Non sostare nel giudizio, non avere continuamente bisogno di giustificare la propria vita. “Si vive e basta”, ricevendo, perdonando, come bambini.

Ciò che possediamo ci è dato

Andiamo verso ciò che ignoriamo non per conoscerlo ma per lasciarci formare da esso, per lasciarci da esso possedere. Ciò che possediamo ci è dato, arriva a noi come una sorpresa: il sapere non è un sapere ma un affidarsi. Come è per i bambini: capaci di conoscenza immediata, i bambini “sanno vedere quello  che gli adulti non sanno vedere”, quello che è invisibile. Come il piccolo Giordano vede nel sole e nel mio riso che glielo indica, in un tramonto bellissimo: “Guarda il sole, papà, come è buono!” Buono, non bello. Benedizione e dono, come il riso.

“Guarda il sole, papà, come è buono!” Buono, non bello. Benedizione e dono, come il riso

“Non vedono se stessi e, attraverso se stessi, il mondo; vedono il mondo fuori di loro, nella sua identità.” (scrive Mario Bertin  introducendo il libretto di Maurice Bobin Elogio del nulla) I bambini rispetto all’adulto hanno il vantaggio di “non dover giustificare la loro esistenza”: il bambino vive e ciò basta a riempirgli la vita. Nell’esperienza della bellezza come in quella della sofferenza donne e uomini si lasciano irradiare dal mondo e non sentono l’esigenza di appropriarsene. Cuore e mente coincidono, come con gli amanti, e per i morenti.

In “perfetta letizia”, pur se per nulla indifferenti di fronte alla sofferenza. Sospira Mario, incontrato da Francesco: “tutto ricomincia”. E il sussurro torna più volte nel libro. Tutto, “al fondo di se stesso”, ricomincia. Non nasciamo una sola volta. Nuovi inizi si aprono nelle crepe, negli spazi, o nei vuoti della vita.

“Dammi un volto”

Per un momento non si sa più chi si è: “dammi un volto“ geme Francesco, prima di trovarsi amato. Sulla nuova nascita ancora sperimentiamo abbandono, sofferenza e nudità della prima. Nel corpo nudo: urlo e  abbandono. Poi, solo poi, il trovarsi amato, cullato e guardato.

Costruire una “regola” sul bordo di quell’urlo e di quell’abbandono, e della letizia del lasciarsi prendere dallo sguardo d’amore di Dio, e per Francesco non può che essere sofferto e tenero scrivere la regola nel corpo. Molto a fatica sulla carta. Che sarà comunque strappata.

 Svuotarsi per accogliere è la “perfetta letizia”. “Fare vuoto dentro di sé, per riottenere le cose”, la rinuncia, la povertà. A Bernardo Francesco parla del silenzio e della povertà: “del resto non sapeva”. Si contiene così la seduzione della vitalità, ma non si sacrifica la vitalità. E si vive la bellezza, che non è tanto qualità estetica ma evento, qualcosa che accade tra un io e un tu, qualcosa che germoglia nella relazione essenziale di non aggressione verso cose e persone.

Come per i bambini così per i sensi di un vecchio: si scopre e si serba il tempo dell’origine e la responsabile cura. E l’origine e la responsabile cura del tempo umano. La creazione, la fessura aperta dall’amore di Dio.

Il Francesco di Mario è un uomo la cui memoria è in benedizione. Un uomo che si è esposto sull’”oscuro abisso di luce”, vivendo la paura di un “inganno supremo”: quello di “farsi dio a se stesso”. Uomo che Mario di Francesco ci fa cogliere a volte sul confine poco tracciato tra delirio e vicinanza al popolo, ad ogni uomo in carne ed ossa.

Confine sul quale Francesco, consapevole e umile, cerca la salvezza. La sente nella povertà: “povertà presa in letizia è gran ricchezza”, perché ti fa cogliere, sorpreso, nella bellezza, nel gratuito, nella tenerezza.

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