Esperienze, parole, rispetto

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Esperienze, parole, rispetto

Custodire l’umano. Rubrica a cura di Ivo Lizzola

I gruppi di incontro tra persone detenute in carcere o in esecuzione penale esterna, e cittadini giovani-adulte e adulti e studenti e studentesse universitari, pur con loro specificità e differenze, hanno tutti segnato in diversi Istituti di pena lombardi percorsi nei quali si è proposto di entrare in circuiti comunicativi ed esperienziali esigenti e definiti.

In essi si sono costruite scene e proposti incontri nei quali i vissuti dei partecipanti risuonassero gli uni negli altri, nei quali le prossimità fossero coltivate e gli ascolti, i dialoghi e i confronti fossero attenti e ospitali. Nella cornice di quello che Michel Foucault definiva “il coraggio della verità”.[1] Hanno  così preso forma sequenze di incontri, veri cammini ridefiniti e ripattuiti via via.

Portatori di esperienze. Testimoni di se stessi

La condizione delle studentesse e degli studenti, portatori di esperienze e percorsi in parte determinati, in parte aperti e tesi verso scelte ed esperienze future (personali, professionali, sociali), comportava il porre e proporre domande, racconti, emozioni che chiedevano di ampliare il respiro dell’immaginare, del ricordare, del sentire, del pensare scelte, rapporti con il tempo e i mondi vitali, con assunzioni di responsabilità e dedizioni. E ricomposizioni, riaperture di prospettive, domande di senso.

Incontrare ognuno nel suo momento e vivere momenti di verifica e di confronto su quel che affatica e su ciò che si è raggiunto e scoperto, in circles della trasparenza, della parresìa potremmo dire, è stato come consegnare una zona franca, un luogo nel quale esporsi ed essere protetti. Nel quale non si gioca la modalità del migliore/peggiore, nel quale i bisogni, i desideri, i percorsi educativi speciali sono quelli che ognuno scopre come i suoi.

Si entra nelle storie e nelle vite gli uni degli altri, ma fino a un certo punto e sotto il segno dell’ospitalità

È complesso passaggio quello che conduce a diventare testimoni di se stessi, del proprio cambiamento, del proprio desiderio come della propria speranza. Si entra nelle storie e nelle vite gli uni degli altri, ma fino a un certo punto e sotto il segno dell’ospitalità, dell’attenzione, del riconoscimento. Si può vivere in prossimità non temute, non subite: pensare con altri può essere un ritrovarsi su una soglia, reciprocamente ospiti e capaci di inizio, di avvio.

Si possono tratteggiare alcuni caratteri di un’esperienza che ha preso e sta prendendo la forma di una soglia, di un’esperienza di passaggio molto significativa per tragitti personali segnati dalla colpa e dell’incertezza e, insieme, dall’attesa. A volte con la scoperta di vederli segnati dal bisogno di credere, come direbbe Kristeva, di sperare.[2]

Zone franche del rispetto

Il primo è la loro caratterizzazione come zone franche di pausa e di sosta, fuori dai contesti relazionali abituali del carcere e da quelli sociali “affaticati”, nei quali si vive sotto pressione. Nelle zone franche del rispetto, non bisogna per forza dimostrare qualcosa o affermare e difendere ragioni: quel che si è viene accolto, il proprio racconto e vissuto sono ascoltati, solo si chiede rispetto e ascolto per i vissuti e i racconti di altri e, appunto, il coraggio della verità. Ma è legittimo il tenersi in riserbo. Fuori dalle dinamiche del confronto, della forza e del giudizio: si può apparire gli uni accanto e di fronte agli altri, in dolori e in desideri che risuonano e che a volte accomunano.

Il secondo tratto è quello della salvaguardia di zone delle parola  nelle quali si possano vivere le esperienze discorsive e le conversazioni inedite che vengono proposte, permesse, attese. 

Per aprire nei gruppi all’esperienza dell’incontro si è messa al centro una particolare esperienza della parola

Per aprire nei gruppi all’esperienza dell’incontro si è messa al centro una particolare esperienza della parola, e della sua cura. La parola permetteva, certo, nascondimenti e falsificazioni, si chiudeva anche nel senso comune e nel banale “già detto”, ma ha potuto anche aprirsi al cambiamento ed al possibile: con esercizi e scambi  nei quali era possibile “esserci con la parola” in modo inedito. Se ne è sorvegliato con attenzione l’uso mentre negli incontri maturava una capacità di essere-con-gli-altri, e non solo tra altri. 

Un contesto nel quale “si amministra la sofferenza”

Il terzo tratto dei percorsi dei gruppi è stato il prefigurarli come momenti impegnativi ma di passaggio, di transizione, momenti che lasciavano liberi di dirigersi verso un modo di essere, di dire, di scegliere. Transizioni nelle quali si son potute incontrare anche proposte e progetti dentro il carcere (e la comunità) o fuori da essa, nella società, cui riferirsi o partecipare, scegliendolo personalmente.  Come un passaggio verso un oltre, nel quale tenere e lasciare, insieme, le tracce e i segni del passato; nel quale tener fede agli impegni e alle dedizioni reciproche emerse e nuove.

Nei gruppi è come se la convivenza proponesse un luogo sociale, relazionale e simbolico nel  quale ri-proporre una pratica ed un immaginario di convivenza impegnativo e desiderabile insieme. Il carcere li ospita come un “avamporto” d’una comunità riparativa.[3] Certo, dentro un contesto organizzativo molto rigido, centrato sul controllo, la funzionalità, tendenzialmente passivizzante. Contesto nel quale, come ricordato, si “amministra la sofferenza”.[4]

Ivo Lizzola


[1] M. Foucault, Il coraggio della verità. Il governo di sé e degli altri, Corsi al College de France, Feltrinelli, Milano, 2011.

[2] J. Kristeva, Bisogno di credere. Un punto di vista laico, Donzelli, Roma, 2006.

[3] B. Dighera, Lavorare per una comunità riparativa, documento presentato al Seminario “Una giustizia diversa: il modello riparativo”, Università degli Studi di Bergamo, 13 aprile 2016.

[4] P. Buffa, Prigioni. Amministrare la sofferenza, EGA, Torino 2013

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