Isola san Lazzaro degli Armeni

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Pubblichiamo un altro estratto del lilbro di Daniele Rocchetti
“Cercare Dio. Un viaggio per monasteri” (EDB)

Sono profondamente commosso al pensiero della gloriosa storia del Cristianesimo in questa terra, che, secondo la tradizione, si rifà alla predicazione degli apostoli Taddeo e Bartolomeo. In seguito, attraverso la testimonianza e l’opera di San Gregorio l’Illuminatore, il Cristianesimo divenne, per la prima volta, la fede di un’intera Nazione.

Gli Annali della Chiesa universale affermeranno per sempre che le genti dell’Armenia furono le prime, come popolo, ad abbracciare la grazia e la verità del Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo. Da quei tempi epici, la vostra Chiesa non ha mai cessato di cantare le lodi di Dio Padre, di celebrare il mistero della morte e risurrezione del Figlio suo Gesù Cristo, e di invocare l’aiuto dello Spirito Santo, il Consolatore. Voi custodite con zelo la memoria dei vostri numerosi martiri, e in verità il martirio è stato un marchio speciale della Chiesa e del popolo armeni”. Discorso di saluto di Giovanni Paolo II durante il viaggio in Armenia, 25 settembre 2001

Un popolo martire

Probabilmente non c’è popolo al mondo (non ce ne vogliano gli Ebrei) che ha avuto storia più tormentata degli Armeni. Una storia segnata sin dagli inizi. Trasferendosi dalle steppe russe e dalle pianure del basso Danubio, tra il nono e il settimo secolo avanti Cristo e attraversando il Bosforo per raggiungere la Frigia, gli armeni finirono per stabilirsi esattamente nel crocevia di ogni futura conquista e scorreria.

Non ci fu invasione dall’ Asia verso l’ Europa e dall’ Europa verso l’ Asia che non coinvolse la loro roccaforte montuosa, ambita da tutti per la posizione dominante verso le grandi vie del Tigri e dell’ Eufrate.

L’intero popolo armeno si converte al cristianesimo, primo al mondo, nell’anno 303

Eppure la storia degli armeni non si può capire se non partendo dalla loro fede. Dal momento del primo annuncio cristiano in terra armena, che la tradizione attribuisce agli apostoli Bartolomeo e Taddeo, al tempo della conversione dell’intero popolo – primo al mondo – al cristianesimo (siamo nel 303!), fino al totale accerchiamento del regno armeno da parte di eserciti e popoli musulmani, le vicende di questo popolo sono una testimonianza straordinaria di fedeltà al messaggio evangelico, pagata duramente, anche a costo della vita stessa.

Gli Armeni resistettero con coraggio all’invasione arabo-musulmana, crearono tra IX e XI secolo un fiorente regno cristiano, entrarono in complesse relazioni con Bisanzio e con i crociati, fondarono fra le montagne del Tauro e il golfo di Alessandretta, vale a dire nella regione chiamata Cilicia, il regno della cosiddetta “piccola Armenia” che si mantenne, con alterne vicende, fino al Seicento quando gran parte dell’ Armenia entrò a far parte dell’ Impero Ottomano.

Armena era Edessa (oggi Urfa in Turchia), la città del “mandylion” della Veronica, armena è la grande montagna dell’Ararat (5156 metri) dove la leggenda e alcuni archeologi contemporanei pongono i resti dell’Arca di Noè, armeni erano i molti mercanti che, fieri della loro appartenenza alla fede cristiana, commerciavano nel mondo allora conosciuto. 

Il primo genocidio del Novecento

I problemi nacquero soprattutto per gli Armeni finiti sotto il dominio turco. Nonostante la precedente convivenza, durante la prima guerra mondiale l’Impero Turco decise, con un proclama non ufficiale, di eliminare tutti gli Armeni dentro i confini dello stato. Fu il primo genocidio del Novecento. Forse il più brutale e crudele. Certamente il più dimenticato e rimosso dalla comunità internazionale.

Ancora oggi, solamente l’Assemblea Nazionale della Francia lo ha riconosciuto: il resto del mondo, Italia compresa, per opportunismo, se ne guarda bene dal farlo. Il sogno dei “Giovani turchi”, che salirono al potere nel 1908, era quello di dar vita ad un grande impero che comprendesse tutte le popolazioni turche, dal Mar Egeo ai confini della Cina. Gli Armeni – ancora una volta! – costituivano un’isola in mezzo al grande mare delle popolazioni turche. Per questo fu deciso di sterminarli.

I “Giovani turchi” erano convinti che le potenze europee, impegnate nella guerra, non avrebbero interferito nelle faccende interne della Turchia. Cominciarono, all’inizio, con gli intellettuali, i monaci e sacerdoti, i dirigenti politici. Nelle città e nei villaggi abitati da Armeni rimasero quindi solo donne, vecchi e bambini. Per loro venne decretata la deportazione. Adducendo come pretesto la prossimità della zona di guerra, vennero costretti ad abbandonare le loro abitazioni per trasferirsi, così fu detto, in zone più sicure.

Durante il genocidio i mezzi usati per compiere lo sterminio furono di un’inaudita ferocia e di un sadico accanimento

Per strada le carovane dei deportati venivano sistematicamente assalite da bande di criminali, fatti uscire appositamente dal carcere per costituire la cosiddetta “Organizzazione Speciale” il cui compito era lo sterminio degli Armeni. I mezzi usati per compiere questo sterminio furono di un’inaudita ferocia e di un sadico accanimento.

Chi riusciva a sfuggire al massacro periva per la fame, la sete, le malattie e gli stenti del lungo viaggio compiuto a piedi per centinaia di chilometri. Morirono così circa 1.500.000 di persone: la gran parte degli Armeni di Turchia. Molte chiese armene, autentici gioielli dell’architettura medievale, durante il genocidio, e negli anni successivi, furono intenzionalmente distrutte o lasciate in balia dei vandali e dei ladri oppure trasformate in stalle, magazzini, fattorie. Nel migliore dei casi divennero delle caserme o delle moschee.

La Turchia dapprima ha sempre evitato di parlare dello sterminio; ora si ostina a negare ostinatamente il “genocidio” (che viene ricordato il 24 aprile di ogni anno). Oggi gli Armeni nel mondo sono otto milioni e mezzo: cinque milioni vivono nella “diaspora”, tre milioni e mezzo nell’attuale Armenia, stato nato nel 1991 dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. La capitale è Erevan mentre il  territorio – 30.000 kmq – è un decimo di quello originario.

San Lazzaro, un’Armenia in miniatura

La pressione musulmana aveva obbligato una parte della Chiesa armena, alla fine del XII secolo e poi di nuovo durante il XV, ad aderire alla Chiesa romana: oggi esistono due Katolicos, uno maggioritario – monofisita – e uno che riconosce il primato di Roma, alla pari di una terza e più piccola, con sede in Libano. Nella stessa Armenia, nel 1700 iniziò a venire perseguitata la minoranza cattolica (300.000 persone), tanto che il monaco Manouk de Pierre, detto il Mechitar (il Consolatore) che in terra natale aveva fondato una serie di monasteri, dovette fuggire. Prima andò in Grecia fino a raggiungere poi nel 1715 Venezia dove riuscì a farsi destinare dalla Repubblica un’isola in precedenza adibita a lebbrosario e poi caduta in abbandono da due secoli: l’isola di S. Lazzaro.

La Repubblica veneta destina agli armeni l’isola san Lazzaro. Qui la cultura armena conosce una straordinaria rifioritura

Grazie a Mechitar e all’azione del suo ordine, la cultura armena conobbe una straordinaria rifioritura. I Mechitaristi rifiutarono i tentativi di latinizzazione della liturgia armena e intrapresero un’opera colossale: tradurre in armeno i capolavori della cultura mondiale (studi religiosi, linguistici e storici, teatro, letteratura). 

Per questo, l’isola di san Lazzaro è considerata “un’Armenia in miniatura” non solo dai tantissimi turisti che vi approdano quasi per caso, ma anche dagli Armeni sparsi in tutto il mondo. Oggi si raggiunge l’isola di san Lazzaro con il vaporetto numero 20 che parte dalla Riva degli Schiavoni, poco lontano dalla chiassosa e troppo affollata Piazza San Marco. Sono venti minuti di battello che introducono in un mondo “altro”, segnato dalla bellezza delle linee architettoniche del complesso monastico e dal silenzio che circonda l’isola. Un silenzio che avvolge anche il visitatore più distratto, che rende questo luogo affascinante come pochi, al punto che Lord Byron, uno dei molti intellettuali che soggiornò sull’isola, ebbe a dire che “persino in questa vita ci sono cose diverse e migliori”. 

Con la cultura a servizio dell’Evangelo

Ad accogliermi sull’isola è un monaco dallo sguardo sornione: padre Vertanes Oulouhodjian. A prima vista, non appare molto contento di vedermi (anche qui non si fidano troppo dei giornalisti…) ma gli basta poco per appassionarsi alla discussione e iniziare un racconto che, con fatica, riesco, ogni tanto, ad interrompere. Padre Vertanes è uno degli otto monaci mechitaristi che attualmente vivono sull’isola.

Curano la preghiera (sette volte al giorno, come tutti i monaci), la liturgia, lo splendido museo che raccoglie quanto gli Armeni di tutto il mondo da più di due secoli hanno portato qui.

Scopo dei mechitaristi, oggi come ieri, è servire la nazione armena facendone conoscere la cultura e promuovendo l’unione con la chiesa di Roma. Preghiera, studio e apostolato (scuole e parrocchie) sono i mezzi utilizzati per realizzare questo fine. 

Padre definire un armeno non è semplice… Mi dia una mano…

Siamo un popolo indoeuropeo con una lingua propria e un fortissimo legame culturale. Certo, essere stati cinquecento anni sotto la dominazione turca è stata una prova durissima, ma ha permesso di dimostrare anche la forza culturale del nostro popolo.

Parte integrante della nostra identità è la fede cristiana: essere cristiano è essere armeno. Il nostro fondatore raccontava che un giorno, quando era giovane, gli capitò di incontrare un gesuita e, a questi, padre Mechitar chiese se credeva nella Santissima Trinità e se aveva devozione per la Santissima Vergine Maria… Insomma, essere armeno equivale a dire essere cristiano ed essere cristiano significa essere armeno. Chi rinnega la fede cristiana rinnega la sua vita, rinnega la sua armenità. Noi che pure sosteniamo l’unione della Chiesa armena con la chiesa di Roma, ci sentiamo armeni al 100 per cento. A scanso di equivoci, non siamo gli armeni “cattolici” che spesso, nei secoli precedenti, si sono creati un’identità a parte, molto “romana” e poco armena. Noi li chiamiamo “Franc”, franchi, latini… 

Su cosa si fonda la spiritualità armena? 

E’ basata essenzialmente sui padri della chiesa… 

Vuol dire che è impiantata sulla struttura monastica? 

Sì, il monachesimo è quello medio-orientale, basato in gran parte su san Basilio ma anche su sant’Antonio, la cui tradizione eremitica era molto radicata in Armenia. Tenga conto che la vita monastica in Armenia era molto fiorente e molto diffusa: in ogni angolo c’era un monastero.

Come per il resto d’Europa, il monachesimo rappresentò uno straordinario movimento di cultura, di arte, di spiritualità e di animazione liturgica. Fu un monaco, Mesrop Mashtots, che, nel 405, inventò l’alfabeto armeno. La vita monastica si concentrava su preghiera, lavoro quotidiano, studio delle sacre Scritture e dei commenti dei Padri della Chiesa.

I monaci vivevano una vita di povertà, obbedienza e castità senza però fare voti espliciti. Fu Mechitar a voler conservare la forma del monachesimo armeno “non senza i tre voti che sono essenziali allo stato religioso”.

La liturgia, un incontro con la santità di Dio

L’altro caposaldo della spiritualità armena è la liturgia… 

E’ vero. La liturgia è l’espressione del popolo armeno ed esprime lo spirito dei padri della chiesa armena. E’ una liturgia molto antica che si caratterizza da una grande apertura alle varie tradizioni cristiane di altri popoli tra i quali gli Armeni si sono trovati a vivere: quella sira, quella greca e quella latina. Molte parti sono state accolte dentro la propria liturgia, mantenendo invariato il nucleo originale ed il tono proprio dell’identità armena.

La liturgia è sempre molto solenne, e viene celebrata nell’antica lingua ecclesiastica nella chiesa che, a differenza delle chiese orientali, non ha l’iconostasi; al suo posto c’e’ una grande tenda che viene chiusa in alcuni momenti della celebrazione.

Luci, colori, profumi, tutto avvolge la persona chiamata alla preghiera

Luci, colori, profumi, tutto avvolge la persona chiamata alla preghiera. In particolare i canti sono famosi per la loro bellezza, venati come sono da una melanconia tipica degli Armeni. Furono raccolti e ordinati nell’undicesimo secolo in un libro chiamato Sarakan, che vuol dire “raccolta di gemme”. Sono inni e composizioni che mettono al centro la vita e i misteri di Cristo, della Vergine, degli apostoli e dei martiri.

Per noi la liturgia è stare alla presenza del sacro: per questa ragione i ministri non calpestano lo spazio intorno all’altare con le scarpe normali, ma con speciali pantofole; per questo,  il libro del Vangelo viene sempre tenuto in mano con un velo prezioso. La liturgia è l’incontro con la santità di Dio, un incontro che genera sempre una missione e un compito nel mondo.

Come ha detto Giovanni Paolo II quando ha incontrato i monaci della nostra Congregazione

con la vicenda di Mechitar di Sebaste la storia della spiritualità monastica armena tocca un suo vertice. In un periodo di forte decadenza, dovuto anche a precise circostanze socio-politiche, Mechitar comprese che nella santità stava il mezzo più alto ed efficace per ridare dignità, vigore e impegno morale e civile al suo popolo. Egli fu anzitutto un cercatore di Dio, come ogni monaco è chiamato ad essere. Volle esserlo nel contesto preciso della vita monastica armena, riconoscendo in essa un inesauribile serbatoio di santità e insieme un singolare ambito di approfondimento culturale dei valori della tradizione, grazie alle celebri accademie e all’istituzione del “vardapet“, il monaco-dottore, incaricato di diffondere, mediante la predicazione e il discepolato, la dottrina cristiana.”

Anche noi, qui sull’isola, vorremmo camminare su questa strada: essere cercatori di Dio capaci di raccontarlo con la nostra vita e la nostra sapienza.

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