Il racconto prende le mosse da una situazione classica. Tutto nasce da nulla.
All’inizio, il vuoto “come se la noia si fosse trasformata proprio in quello, in un vuoto” (p. 8).
Il protagonista va ma non si dice dove. Va e basta.
Sa soltanto che “qualcosa, qualsiasi essa sia, conduca, qualunque sia il significato, sì, a qualcosaltro” (p. 8).
Viaggia con la sua automobile, senza meta. “Ero salito in macchina e via, e dove potevo girare a destra o a sinistra giravo a destra, e dove al bivio successivo potevo prendere a destra o a sinistra prendevo a sinistra (p. 7). Il punto a cui arriva è una specie di punto finale. Non può andare oltre, la strada forestale nella quale si è impantanato finisce e non c’è spazio per fare retromarcia. Non può tornare indietro per trovare gente, fermarsi in un bar per mangiare un hot dog. Ha superato, nel suo inspiegabile viaggio verso quel posto senza un altrove, una sola casa senza persone, abbandonata. Ma di case non ne ha viste nemmeno sulla strada principale alla quale pure vorrebbe tornare come alla sua salvezza.
Inizia a nevicare e fa freddo. Cerca di riscaldarsi accendendo il riscaldamento della macchina. Poi esce dalla macchina nel bosco, dove sta arrivando la notte. La neve ha reso più difficile trovare tracce e presto diventerà impossibile ritrovare anche la macchina per il buio che si fa sempre più fitto. Situazione senza via d’uscita: “E ora non vedo quasi più niente, tanto è diventato buio tra gli alberi. E poi questa neve. E questo freddo” (p. 22). Deve tornare indietro sperando di ritrovare le impronte che lui stesso ha lasciato nella neve. “Ora, però, si è fatto così buio, Mi fermo. Guardo davanti a me, dentro il buio nero, è come se non si vedesse nulla, solo il buio nero. Guardo in alto, dritto in alto, e vedo un cielo nero senza stelle” (p. 25).
A un certo punto gli appare qualcosa di misterioso, indefinibile: “sagoma luminosa che diventa sempre più nitida” (p. 26). Tutto è però incerto e il carattere incerto viene accentuato dalle distanze impossibili da precisare: “E’ impossibile dirlo , sì, se è vicina o lontana” (p. 27). La luce è forte ma non fa male guardarla, è bello guardarla, anzi. Non la si può toccare per non sporcarla… Poi la luce sparisce e le incerte domande del protagonista si moltiplicano. Alla luce sembra subentrare una voce e alla voce accompagnarsi una vaga, indefinibile sensazione di vicinanza, compagnia. E si ha il dialogo fra il narratore e la misteriosa identità, la quale tra brevi risposte e numerose reticenze, alla fine si definisce: “Io sono chi sono” (p. 42).
Dopo il bagliore appare una coppia di persone anziane. Sono i genitori del narratore. Anche loro escono faticosamente dalla incertezza notturna che domina tutto. Si avvia un abbozzo di dialogo. Ma le parole sono tronche, non “passa” nessun vero messaggio. I genitori restano come bloccati, fermi, incapaci di andare incontro al narratore. E poi anche il cielo si rabbuia di nuovo e le stelle si spengono. E nel buio gli stessi genitori spariscono. Prima, si sente la loro voce e poi più nulla.
Più oltre, mentre si siede su una pietra per riposarsi, intravede, nel buio, “un uomo con indosso un abito nero, una camicia bianca e una cravatta, sì, è lì, e, a quanto sembra, sta guardando verso di me” (p. 64). Poco oltre, torna a vedere lo splendore di prima e, insieme con lo splendore, riappaiono i protagonisti, tutti con i piedi nudi nella neve , “l’uomo con l’abito nero, senza volto, mia madre, mio padre e io, usciamo a piedi nudi nel nulla, respiro dopo respiro, e all’improvviso non esiste più neanche il singolo respiro, ma solo l’entità splendente, scintillante che dal suo biancore illumina un nulla che respira, che adesso è ciò che respiriamo” (p 74).
Così termina il racconto.
Tutto è variamente allusivo. Fosse ricupera, in termini e situazioni moderne, temi classici dell’uomo, della sua solitudine, del suo rapporto con l’”altrove”, vicino e lontano, desiderato e irraggiungibile.
L’uomo, dunque, anzitutto protagonista e punto di partenza. Uomo solo, che va senza avere una destinazione chiara, si perde nel bosco e nella notte. Sa che addentrarsi nella selva oscura è “pura follia. Stupidità” (p. 21). Ma vi si addentra e perde tutti i punti di riferimento possibili. Si perde da uomo moderno: con l’automobile che non riesce a fare retromarcia. Bella intuizione dell’uomo che diventa vittima della sua stessa forza, della stessa tecnica di cui dispone. Ma resta comunque essere che sente il bisogno e il desiderio di salvarsi. Salvezza che significa in prima istanza ritrovare gente, uscire dalla solitudine. Ma è salvezza impossibile: le case sono vuote e la gente è lontanissima. L’uomo da solo non si salva, infatti. Se si salva è perché qualcosa gli appare, in mezzo al suo inguaribile smarrimento.
Jon Fosse ripensa il passaggio biblico del roveto ardente, capitolo terzo del libro dell’Esodo: il “qualcosa” che appare è luce, “un bagliore”, come dice il titolo del libro. Il narratore smarrito sente attrattiva verso di essa, ma, insieme, si trova nell’impossibilità a toccarla: “non si può toccare un tale biancore” (p. 29). Nello stesso tempo, però, nel vedere la sagoma luminosa, il narratore non ha più freddo. Sente posare sulla sua spalla una mano “pesante, eppure in qualche modo leggera” (p. 31).
Il mistero profondo si prolunga anche quando il narratore vuole indagare sulla identità della misteriosa presenza. La risposta è quella biblica che Dio dà a Mosé sul Sinai, Esodo 3, 14: “Io sono chi sono”. Che è risposta e non risposta, declinazione di una identità e rifiuto di declinarla.
Nell’insieme, si potrebbe parlare di una visione “protestante” della salvezza nonostante la conversione dello scrittore al cattolicesimo. Nel senso che l’uomo, smarrito, peccatore e solo, non ce la fa a uscire dalla sua solitudine e dal suo peccato. Si salva solo per grazia. Non è l’uomo che trova la salvezza, ma è la salvezza che si fa incontro all’uomo.
Anche il padre e la madre che appaiono dopo il bagliore sono figure ampiamente allusive, nuovo Virgilio e nuova Beatrice, quasi una reinterpretazione domestica dei personaggi della Commedia dantesca, della quale Fosse è notoriamente ammiratore. Come se l’indeterminatezza del bagliore chiedesse una maggiore chiarezza dei soccorritori. Quando tutto sparisce e tutto diventa silenzio. Allora le tematiche teologiche diventano esplicite. “Rimango immobile, in silenzio. Voglio che il silenzio sia totale, voglio ascoltare il silenzio. Perché è nel silenzio che si può sentire Dio. O almeno lo ha detto qualcuno, eppure non riesco a sentire nessuna voce di Dio, l’unica cosa che riesco a sentire, sì, è il nulla (p. 55).
Fascino discreto del tutto-nulla che molta tradizione cristiana, mistica soprattutto, ha ampiamente sentito e descritto.
Alla fina, si ha la netta sensazione che l’equilibrio fra i dati teologici e l’invenzione dello scrittore sia sapientemente raggiunto. Senza dimenticare che la distanza fra i primi e la seconda permette al lettore di dare spazio alla propria libertà e alla propria fantasia.