Ho letto con molto interesse l’intervista a Michel Houellebecq sul Corriere di qualche giorno fa. Houellebecq è scrittore tanto noto quanto discusso. Noto e, anche, forse, grande scrittore. Forse, perché resta sempre da decidere in che misura il successo è sinonimo di grandezza e, viceversa, quanto l’insuccesso sia segno di irrilevanza. (In Francia, credo, è molto sentito quello che si potrebbe chiamare il “complesso Proust”. Il grande Marcel Proust ha faticato parecchio a trovare un editore al primo dei sette romanzi – Dalla parte di Swann – che compongono il suo capolavoro assoluto, Alla ricerca del tempo perduto. E dovette pagarsi lui le spese. Correva l’anno 1913. Poi arriverà la guerra. Il secondo volume – All’ombra della fanciulle in fiore – uscirà nel 1918. E sarà il premio Goncourt e il grande successo).
Da allora, appunto, si ha la sensazione che in Francia si temi di perdere un’altra volta l’occasione e si preferisce rischiare sul sì piuttosto che sul no. Ecco, mi pare che Houellebecq goda di questo presupposto favorevole. Comunque, è un intellettuale che parla e fa parlare.
Uno dei motivi del discutere sul suo conto è il romanzo Sottomissione nel quale l’autore immagina che in Francia sia arrivato al potere un presidente musulmano. Le discussioni si sono ingigantite in quanto nello stesso giorno in cui il libro veniva pubblicato, il 7 gennaio 2015, ha avuto luogo l’attentato terrorista dei fondamentalisti islamici al settimanale Charlie Hebdo.
Houellebecq sostiene che esiste un “senso di colpa occidentale, di volontà di scomparire, di pulsione suicida”. Ma, oltre a questo dato di base, Houellebecq sostiene che è il mondo dell’istruzione, quella universitaria soprattutto, che è il punto di intrusione della cultura islamica. La presenza sempre più massiccia dell’Islam ha fatto nascere nell’opinione pubblica francese una specie di talvolta inconscia autocensura. Lo stesso Houellebecq riconosce che anche lui “sta attento” a quello che dice.
Lo scrittore pone però un problema che è molto importante. Lo si potrebbe precisare con una domanda. Quali sono i valori di riferimento dell’Occidente, dopo la marginalizzazione della tradizione cristiana? La Francia è un caso esemplare. Grande enfasi, nei giorni scorsi, sulla riapertura di Notre-Dame e grande enfasi, da sempre, sulla laïcité francese che è fortemente polemica nei riguardi della Chiesa e del ruolo sociale di questa.
Le religioni cristiane, è noto, non fanno più politica da noi. Soprattutto quelle del mondo occidentale (sull’Oriente ortodosso, si dovrebbe fare qualche distinzione). Ma le confessioni cristiane, anche se non fanno politica, possono ispirare la politica con i loro grandi valori di riferimento. La gente non vive di sola politica, infatti. E, soprattutto, la politica non risponde, per dire, alla provocazione della sofferenza, della paura e, tanto meno, alla paura molto particolare della morte. La politica, che non risponde a quelle domande, dovrebbe preoccuparsi che ci sia qualcuno che vi risponde. Le chiese, in questo senso, sono un problema se diventano partiti politici, ma diventano un problema politico se non sono più chiese.
Le paure di Houellebecq, in questo senso, sono fondate. L’Islam è fortemente politico: non solo l’Iran dove la gerarchia sciita governa, ma anche altrove. Anche in Turchia. Non è necessario essere degli esperti di storia moderna per notare che le tendenze islamiche di Erdogan hanno poco da spartire con la rigorosa laicità di Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore e primo presidente della repubblica turca. Considerazioni, da articolare ma comunque analoghe, si possono fare su tutti i paesi di area mussulmana.
Dunque, il vuoto di valori dell’Occidente resta semplicemente vuoto, oppure attende di essere riempito? E riempito da chi e da che cosa? Ovvio, a questo punto, che la forza politica della religione islamica diventa un’alternativa non solamente astratta alla debolezza religiosa occidentale.
C’è solo da sperare che le utopie narrative di Houellebecq restino soltanto utopie. Ma il problema dei nostri vuoti resta. In effetti, mentre le utopie narrano di un “luogo” che non c’è e nel quale non si vive (il termine “utopia” significa “luogo che non esiste”) aiutano anche a rivelare, per contrasto, la non-identità del luogo che invece esiste e nel quale, bene o male, si continua a vivere.