Lizzola/L’annucio. La morte. I giovani

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Costudire l’umano/La vita che finisce, il senso della vita… e altre cose di cui (non) parlano le cronache

L’annuncio La morte I giovani. Corpo a corpo, ancora, ma irrigiditi questa volta. Non pazzi e gioiosi negli urti, o negli abbracci durante gli aperitivi o le pizze di classe; negli sguardi aperti o allusivi, nei sorrisi e nelle chiacchiere rumorose. Così diversi e così legati; così franchi ma anche attenti alle emozioni e alle storie delle compagne e dei compagni.

Di fronte alla paura della morte. Oltre il “culto del vivere”

Come la volta del difficile passaggio di alcuni di loro davanti al suicidio di uno del loro giro. Loro si erano trovati di fronte alla nudità del tempo e alla paura della morte. Michele allora aveva detto: “fan pulizia nella tua mente queste cose… ci si sbarazza di rapporti vecchi o superficiali… ma non c’è bisogno di fatti gravi per rompere l’equilibrio della vita”.

Michele che ora è qui, rotto nel corpo nella bara che stringono, corpo a corpo. Di nuovo, con una forza imprevista, pare che si sorprendano, come se fosse la prima volta, in una improvvisa immobilità. Che durerà nel tempo, per alcuni per molto tempo. E sospenderà il migrare, il rumore, ponendo i ritmi del ricordo e della nostalgia. Aprendo, forse, con il ritmo dei racconti e degli affetti, una nuova storia del gruppo dei compagni, dei coetanei e delle coetanee più vicine a chi si è tolta la vita giovanissima.

Era stato proprio Michele a dire allora: “Basta con questo culto del vivere! Che rimbambisce, lascia in superficie; è come scappare sempre e non ti fa incontrare nessuno… ”.

L’improvvisa immobilità sorprende, quasi un improvviso svelamento della insostenibilità del vivere presi dal “culto del vivere”: quello intenso, veloce, senza respiro.

La fissità del corpo dell’amico morto. E la carezza

Nelle ragazze, nei ragazzi è il corpo proprio che pare portare dentro di sé la fissità del corpo dell’amico. Come se fosse una possibilità nascosta e poco ammessa fino ad ora, non riuscisse più a essere nascosta dalla frenesia condivisa. L’intensità emotiva con cui la morte incontrata resta dentro gli adolescenti è forte. Le identificazioni sono immediate ed è grande la paura di perdere il controllo su di sé e sulla vita.

Del tempo biografico si impone l’irreversibilità: questa, almeno, la si vive nel tempo della propria esistenza, dell’unica, singolare e al fondo solitaria vicenda che è la propria storia. La storia di ognuno. È un sorprendente capovolgimento delle tragedie antiche: la tragedia che fa conquistare a giovanissime e giovanissimi la coscienza che noi siamo una storia, non un destino.

Il corpo proprio, mortale sente dentro la fissità del corpo morto dell’amico, e sente il bisogno originario della carezza. Una carezza che non prenda, non stringa. Carezza che segnali l’essere affidati, e anche e insieme l’essere affidabili. Come giovani donne e giovani uomini vulnerabili, ma affidabili.

Guardano gli adulti vicino a loro, come li riconoscessero solo ora, come se ne sentissero, finalmente, la fragilità e la consegna. La fragilità dell’esposizione e la consegna ad andare avanti, giovani, in prima fila.

Quante “mute” nel tempo breve che porta oltre i vent’anni dentro questi corpi, e nei paesaggi interiori che ospitano. Le “mute” di Michele che diventa giovane uomo: lo scettico, duro e competitivo Michele, che si sarebbe poi messo ad allenare i piccoli della “scuola-calcio” del paese e a impegnarsi nel sostegno del progetto sanitario in Ruanda. Lavorando a se stesso e ricordando l’amico che aveva “lasciato la presa” anni prima, volando dal ponte.

Ora di Michele (“Mancio”, per noi) resta l’annuncio, resta con la forza dei giorni compiuti. Solo l’annuncio, verrebbe da dire, e verrebbe anche da chiederci: “è tutto qui?”. Non è un amaro e deludente gioco che la vita possa essere solo un annuncio? Ma, forse, se così si può dire, tutto è in ciò che in noi, (nei nostri gesti, nelle scelte e nelle parole) è annuncio. Cioè attesa, attesa di felicità, di pienezza, attesa del gusto del vivere; e di un suo senso. E scoperta d’essere attesi.

Le relazioni buone e giuste e il senso di quello che si fa

Le tensioni forti, quelle del desiderio e quelle della mortalità, che han segnato il corpo di Michele, muovendo la tenerezza e la pietà di chi l’ha amato: queste tensioni sono sostenibili se si incontrano e si maturano due condizioni. La prima è vivere una trama di relazioni buone e giuste, di rispetto, di attenzione e affidamento reciproco. Con giovani e adulti, che si aspettano cose belle e importanti, che chiamano in responsabilità, che sanno perdonare. Mancio ha ben colto questa condizione.

La seconda è maturare una destinazione di noi, delle nostre capacità, dei nostri affetti, delle scelte e degli sforzi. Una dedicazione e un senso. Perché noi, unici, chiamati per nome, a rispondere (nel solo e particolare modo che è quello delle nostre potenzialità e dei nostri limiti) viviamo attese di accompagnamento, di giustizia, di bellezza e di pace. Quelle che chi incontriamo ci rivolge.

Per Michele sono i piccoli e i ragazzi che ha allenato e di cui descriveva le particolarità singolari, le forze e le debolezze; e il loro lavorio sulla sua pazienza! E sono i lontani-presenti come le donne e gli uomini del Ruanda, o quelli di cui parlava l’amico di Michele nel Mali: loro fanno cogliere le direzioni e gli orizzonti.

Resta l’annuncio, sì, ed è la cosa più preziosa. Riuscire un poco, nelle cose che facciamo, a farle come un annuncio. Si potrebbe quasi dire: la dedica, come sigillo dello studio, del lavoro, delle preoccupazioni e dei progetti. L’annuncio La morte I giovani

Mancio, il competitivo e ostinato Mancio, lascia segnato l’annuncio: che si può competere non per prevalere su altri, ma per sviluppare pensiero e azione, confronto trasparente e cooperazione tra diversi, con diverse capacità e sensibilità. L’annuncio che quel che si impara, che si ricerca e per cui ci si impegna, può non essere finalizzato a centrare obiettivi per sé, a vincere, a conquistare sicurezze. Può essere un percorso di crescita personale e di costruzione di un mondo nuovo, da “anticipare” già nei gesti quotidiani, concreti, nelle responsabilità, nelle relazioni di vicinanza.

Si può essere diversi e insieme uniti

È il grande annuncio che lega Mancio a giovani donne e a giovani uomini cresciuti con lui: si può essere diversi, anche molto, e con il gusto della propria individualità: ma questo non impedisce di trovare un profondo tessuto di unità.

“Insieme” han ripetuto i  corpi stretti e belli. Sorprendente e preziosa la tensione che li ha uniti. Che ha aperto in ognuna e ognuno percorsi particolari di maturazione. Chi questo sa ascoltare, questo ben coglie. Questo contempla.

Delicatissimo annuncio di Mancio e di chi prosegue il cammino. L’annuncio La morte I giovani…

Allora “ci si rende conto” del dolore e della gioia che incontriamo. Di chi è ed era vicino, come Mancio; anche di chi ci è lontano, nello spazio, e anche nel tempo. È “rendersi conto” che chi incontriamo va sempre un po’ oltre e lontano, mistero sempre; ma non ci è estraneo. Ci rendiamo conto che quel dolore altro va ospitato in noi, risuona, chiede e apre spazi nella mente e negli affetti. Entriamo nell’ignoto e nell’irripetibile, e così il nostro sentire s’arricchisce d’altri lati, fino ad ora nascosti.

Non è semplice vivere quello che si vive” diceva qualcuno nel cerchio: serve un movimento di resistenza, e di resa. Occorre “restare nel vivo”: ciò a volte è tenero, a volte è tragico. Che non prevalga l’istanza dell’inattenzione o della fuga, dell’intorpidimento del sentire, del pensare,  dello sperare. Sarebbe tradire l’annuncio, e l’attesa che conserva.

Siamo attesi. “La Rosa non ha ragioni per sbocciare, sboccia e basta”

Siamo attesi: Michele lo ha colto e comunicato. Siamo attesi: e quando lo avvertiamo la vita prende forma, è apertura al mondo, si essenzializza e si libera di quel che è superfluo o superficiale.

“La rosa non ha ragioni per sbocciare, sboccia e basta. La vita riesce a scovarci anche quando nessuno sa più dove siamo, neanche noi”: lo ha scritto un amico, pensando a Michele. Al suo fiorire negli anni del liceo e dell’esordio all’università. È riflesso nei giovani seduti per terra sotto casa il venerdì sera, poi continuamente presenti attorno a Mancio. Infine stretti con le mani e con il bacio su di lui nell’ultimo saluto al cimitero.

Sono privilegiati, loro e Michele, nell’avere avuto insegnanti, donne e uomini adulti che li hanno avuti tanto a cuore e nel cuore. Ed è stato un privilegio per questi il crescere con loro, di nuovo misurarsi sull’impresa educativa, nell’accogliere le domande e le attese.

Nella messa di saluto a Mancio si è cantato il Salmo che dice “li hai fatti quasi simili agli angeli”. E si guardava a queste giovani donne e questi giovani uomini. E noi adulti quasi incantati: “li hai fatti quasi simili agli angeli”. Con corpi fragili  e vulnerabili, capaci di sentire dentro il mondo, e la tenera tensione di qualcosa di assolutamente bello e giusto.

Nella promessa che attraverso Michele tocca il tempo e lo apre, che rifiorisce per  sempre.

L’annuncio La morte I giovani…

 

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