Mentre si parla di guerre e di massacri ci si chiede che cosa è l’uomo e in che cosa consiste la sua grandezza. Sembra una domanda oziosa, ma non lo è soprattutto quando molti degli eventi che capitano sembrano smentirla.
Leggo sull’inserto domenicale del Sole 24 Ore, da un articolo di Natalino Irti, – titolo: Umanesimo della tecnica, dove commenta una pagina di Giovanni Gentile tratta da “Genesi e struttura della società” – il seguente passaggio: “Lo scrupolo critico (…) distingue due modi di concepire l’umana dignità, e contrappone alla ‘teoria della dotazione’ una ‘teoria della prestazione’.
La prima, spesso d’intonazione religiosa o naturalistica, spiega la dignità come qualità o proprietà originaria dell’individuo. L’altra concepisce la dignità dell’uomo come un prodotto del proprio agire, come prova della soggettività umana, come costruzione della propria identità. Dignità dell’uomo che è; dignità dell’uomo che fa”.
Interessante. Ma mi pare la cosa più interessante non tanto separare le due tipologie di dignità, ma unirle. L’uomo che è non “è” soltanto ma “fa” e viceversa. E forse la stessa dignità non dipende dall’una o dall’altra idea, ma dalla loro reciproca interazione. Con relative, opposte derive: chi pensa di fare solo perché è e chi pensa di essere solo perché fa.
Anche dentro la Chiesa dei nostri tempi si riscontrano le due derive. Ci sono credenti che si credono perfetti perché condividono alla perfezione un sistema di verità e ci sono credenti che si credono perfetti perché hanno abbracciato un attivismo senza respiro. I credenti che sono e i credenti che fanno, i credenti della dotazione e i credenti della prestazione.