
I pastori sono i primi destinatari dell’annuncio, annuncio “celeste” che viene dagli angeli. Vanno fino a Betlemme e trovano il “segno” di cui gli angeli hanno parlato: il bambino adagiato nella mangiatoia”. E, dopo averlo visto, riferiscono ciò che hanno sentito e visto.
Interessante il particolare: “Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo…”. E’ lo schema tipico del vangelo: Dio parla “divinamente”: gli angeli cantano. Poi gli angeli se ne vanno. Restano i pastori, questi uomini semplici e marginali, proprio loro devono trovare il Bambino.
Poi anche il Bambino crescerà, morirà, risorgerà e se ne andrà anche lui, là dove sono andati gli angeli del Natale.
Restiamo noi che abbiamo creduto agli uomini che ci hanno raccontato quello che hanno raccontato i pastori, i quali hanno raccontato quello che avevano annunciato gli angeli… Restiamo noi, con le nostre esistenze spesso più povere di quelle dei pastori, più provate, più doloranti.
A quel punto, quando siamo noi a essere interpellati, il personaggio di riferimento per noi diventa Maria, sulla quale si concentra, alla fine, l’attenzione dell’evangelista. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. Il termine “meditare” si potrebbe tradurre con “mettere insieme”, fare attività simbolica che unisce due termini diversi per farne uscire un significato nuovo. Siamo chiamati a fare la stessa “attività simbolica” di Maria. Dire quello che si è visto e testimoniare quello che crediamo. Nonostante tutto.
Il Bambino è il Figlio che ha iniziato con la sua nascita a darsi, a donarsi ai suoi fratelli umani. L’inizio della vita di Gesù rimanda così alla sua fine, la nascita apre alla morte-risurrezione. Il Natale è l’inizio della inenarrabile “eudokìa”, la condiscendenza divina verso di noi (pace in terra agli uomini amati dal Signore, uomini, oggetto, appunto, della “eudokìa” di Dio).