
Se fosse vissuta in un’epoca diversa e non tra gli orrori del nazismo, Etty Hillesum avrebbe sicuramente superato i 29 anni a cui la sua breve vita è stata fermata. Mi piace immaginare che sarebbe diventata una scrittrice: libera certo, intellettuale, forse anticonformista, forse anche trasgressiva, come altre autrici del suo tempo.
I presupposti infatti c’erano tutti in questa giovane donna ebrea inquieta, intenta alla scoperta di se stessa e del senso dell’esistenza, desiderosa di amore e amicizia coniugati nelle loro varie forme, dall’affetto alla tenerezza fino alla passione assoluta. Desiderosa anche di cambiamento rispetto alla mentalità delle generazioni precedenti, di una libertà di pensiero che investisse pienamente anche la sfera affettiva e sessuale.
Questa sua profonda ricerca era fatta di letteratura, filosofia, psicologia, religione: Rilke – amatissimo – i grandi autori della letteratura russa, la Bibbia, S. Agostino e gli Evangelisti furono i suoi maestri e compagni di viaggio.
Il tremendo periodo storico in cui visse si tramutò per lei in grazia
Ma paradossalmente – si tratta però soltanto di una mia convinzione – sono stati proprio gli orrori dell’ occupazione nazista, le atrocità di cui fu via via spettatrice e vittima, ciò che la spinse a una superiore consapevolezza, a un percorso di riflessione che la fece arrivare alla pace interiore, e soprattutto alla scoperta, in se stessa, di Dio. Il tremendo periodo storico in cui visse, insomma, si tramutò per lei – sempre secondo me – in grazia.
Un Dio a cui comunque Etty parla spesso, e senza il minimo imbarazzo, nei suoi diari. Ma la sua religiosità è affatto personale e tutt’altro che convenzionale: ha un ritmo tutto suo, che non è dettato da chiese o sinagoghe, che non conosce dogmi, né alcuna teologia o tradizione- cose che le sono completamente estranee. Si rivolge invece a Dio come a se stessa, a quella parte di sé più profonda e più ricca in cui lei “riposa”.
Nel libro appena uscito di Elisabetta Rasy,”Dio ci vuole felici” (Harper Collins, Milano, 2023), l’autrice indaga su questa figura, simbolo quasi di una giovinezza senza tempo, sulla sua forza e fragilità, paura e coraggio. Le interessano la Etty ancora libera, quella che scrive il Diario dal 1941 al 1943, prima dell’internamento, come ebrea, a Westerbork (sorta di campo di raccolta in vista del trasferimento a Auschwitz), la Etty che riflette sui temi eterni dell’esistenza, i suoi amori liberi e anticonformisti, la necessità di non soccombere all’orrore trovando gioia anche nei momenti più difficili.
La Rasy ne intreccia poi la vita con quella di altre giovani donne collocate nello stesso periodo storico, da Edith Stein a Simone Weil a Micol Finzi Contini (indimenticabile personaggio di Bassani) fino ad arrivare alla propria, naturalmente in un tempo diverso, componendo così un doppio romanzo di formazione. Quella di Etty e la sua.
Ma chi era Etty Hillesum?
Una giovane ebrea olandese nata nel 1914 da una famiglia della borghesia: il padre Louis, insegnante di lettere classiche, persona riservata e insicura, la madre Rebecca, di origini russe, passionale, caotica e possessiva, i due fratelli più giovani: Misha, pianista precocemente dotato ma con una personalità disturbata, e Jaap, medico geniale. (Tutti moriranno vittime della shoa).
Ben presto, a 18 anni, Etty lascia la famiglia per studiare a Amsterdam, dove si laurea in giurisprudenza e intraprende poi gli studi di letteratura slava. Qui frequenta ambienti intellettuali, colti, socialisti e si concede vari amori, con molta libertà. Fino all’incontro con Julius Spier, strana figura di psicochirologo junghiano che aiutava pazienti – generalmente donne – con consigli di psicologia appunto, servendosi però della lettura della mano. E’ per Etty un incontro decisivo e, direi, fatale.
Ne nascerà un grande amore, una passione – anche fisica – che però non escluderà altre relazioni, da entrambe le parti.
”Si deve diventare semplici come il grano che cresce o la pioggia che cade. Si deve semplicemente esserci”
E’ Spier che le consiglia di scrivere i diari, è grazie a lui che Etty, mentre va incontro al suo crudele destino su cui non ha alcun dubbio (“annientamento totale”),trova un suo misterioso destino intimo che la conduce a trovare in se stessa Dio, e insieme ad apprezzare la bellezza di questo mondo che resiste malgrado tutto: nella natura, nei fiori che ogni giorno lei mette nel bicchiere, nella sua camera, nella corsa in bicicletta con il vento tra i capelli…
I nazisti le toglieranno progressivamente tutto, ma non il valore positivo della vita, che resta sempre e comunque qualcosa da amare ad ogni costo, perché “Dio ci vuole felici” (titolo del libro). Etty raggiunge così la pace interiore e la forza che le vengono dall’essersi liberata dall’odio e dal continuare ad avere fiducia negli uomini, tanto che vive, lavora e ama come prima, ma questo amore arriva ad una trasformazione più profonda: la dedizione agli altri: “Si dovrebbe essere un balsamo per molte ferite”, perché “Dio non è responsabile verso di noi delle atrocità che noi stessi commettiamo”, anzi, bisogna “aiutarlo”. E ancora: ”Si deve diventare semplici come il grano che cresce o la pioggia che cade. Si deve semplicemente esserci”.
E lei ci sarà, scegliendo di condividere il destino del suo popolo – mentre avrebbe potuto forse salvarsi – diventando a Westerbork “il cuore pensante della baracca”, e aiutando quelle persone smarrite e disperate, fino a quando salirà con loro sul carro merci diretto ad Auschwitz, gettando a un amico internato una cartolina in cui scrive:”Abbiamo lasciato il campo cantando”.
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