
Il mio personale ricordo della morte di papa Giovanni l’ho raccontato non so quante volte e non ricordo in quali e quante occasioni. E si potrebbe dire che è anche ora di chiudere. Ma i vecchi, insieme a molti diritti che perdono per il passare degli anni, ne acquisiscono uno in alternativa: il diritto di ricordare, per il semplice motivo che sono molto più numerose le vicende che hanno vissuto rispetto a quelle che hanno da vivere.
Questo per giustificare la ripresa di un ricordo della mia giovinezza che ha acquisito, facilmente, la qualifica di “indelebile”: uno di quei ricordi che non abbiamo smarrito nella lunga strada percorsa e che non smarriremo di certo nella ormai breve strada che ci resta ancora di percorrere.
“Io c’ero” – si usa dire così, con un pizzico di ingenuo orgoglio, quando si raccontano quei ricordi – io c’ero la sera del 3 giugno del 1963, quando papa Giovanni morì. Ero un giovane seminarista e studiavo al seminario romano di piazza san Giovanni in Laterano, lo stesso, dove, a inizio ‘900, aveva studiato Angelo Roncalli. L’agonia di papa Giovanni durava da giorni. Nelle austere abitudini del seminario romano (attaccato anche fisicamente alla Basilica di san Giovanni in Laterano, a un tiro di schioppo dal Colosseo) televisione e radio erano di fatto proibite. Si leggeva qualche giornale. Ma in quei giorni l’ansia collettiva per la salute del Papa faceva correre anche le notizie e si seguiva, passo passo, il lento tramonto del grande Papa. Noi bergamaschi – eravamo una decina ospiti del seminario romano – seguivamo con una comprensibile ansia particolare.
Qualche mese prima, febbraio del 1963, papa Giovanni era venuto al seminario romano, aveva celebrato una messa nella chiesetta della “Madonna della fiducia” interna al seminario. Il Papa era molto devoto di quella Madonna. Aveva tenuto un’omelia piena di ricordi e di amabili esortazioni, in perfetto stile Roncalli. Dopo la messa era sceso nel cortile, aveva salutato alunni e superiori. Poi, però, prima di uscire aveva voluto vedere in particolare noi, bergamaschi. Ci aveva intrattenuto a lungo e si era divertito a chiederci i nostri paesi di origine e a ricamare con le sue incredibili memorie: aveva ricordato paesi, preti, personaggi… Mi ricordo bene, però, un particolare inquietante. Gesticolava molto, come era suo solito. Le mani, perfino le palme, erano smagrite, percorse da molte rughe. Il volto era molto pallido. La malattia aveva incominciato a scavare nel fisico robusto di Roncalli.
Erano ancora vivi tutti questi ricordi quando avevamo dovuto, come tutti, prendere atto della notizia della malattia e delle previsioni pessimiste che ne derivavano. Avevamo seguito le notizie lungo i vari giorni della fase finale della malattia. Il 3 giugno, dunque, il mondo intero seguiva, con un’attenzione intensa, le notizie che arrivavano dal Vaticano. Dopo il tramonto, da quando il papa si era aggravato, molta gente usava andare in piazza s. Pietro.
Il cardinale vicario di Roma, Luigi Traglia, ebbe allora l’idea di far celebrare una messa. La notizia venne diffusa nel primo pomeriggio e l’appuntamento era per le 18. Il seminario romano era stato incaricato di curare la liturgia, con i canti e il servizio all’altare. Dunque, durante la celebrazione mi trovavo, con i miei compagni, nella parte alta della piazza da dove si vedeva la folla enorme, compatta e silenziosissima. Era impressionante vedere tutti quei volti che alternavano i loro sguardi dall’altare alle finestre dell’appartamento pontificio, dove era accesa una debole luce: lassù il Papa era in agonia.
Mi ricordo molto bene quello che successe alla fine della messa. Lasciammo la piazza, nella quale molta della gente che aveva partecipato alla messa rimaneva a guardare e ad aspettare notizie e ci recammo oltre la parte sinistra del colonnato del Bernini, nella parte alta, dove si trova il palazzo del santo Uffizio. Lì ci aspettava il pullman. Salii tra i primi sul pullman e chiedemmo all’autista di accendere subito la radio. Le prime parole che udimmo furono: “Era nato a Sotto il Monte il 25 novembre 1881…”. Dunque, papa Giovanni era morto. Chiedemmo all’autista di costeggiare il colonnato e di passare davanti a piazza san Pietro. La piazza era ancora piena di gente e si sentiva un brusio enorme. Guardammo alla finestra dell’appartamento pontificio. Una luce speciale era stata accesa e incorniciava tutti i lati della finestra. Ci spiegarono che si usava così con la morte del papa, in omaggio a una frase dell’Apocalisse dove si dice che la Gerusalemme celeste non ha più bisogno né del sole né della luna, perché “la sua lampada è l’Agnello”. Ce ne tornammo in seminario con la sensazione viva di un lutto che era anche, in qualche modo, nostro, personale, personalissimo soprattutto per noi bergamaschi. Tanto fortemente, intimamente personale, che lo stiamo raccontando ancora oggi, a sessant’anni di distanza.