Il parlamento goergiano, nelle scorse settimane, ha approvato in via definitiva la legge contro le influenze straniere voluta dal partito di governo Sogno Georgiano. In base alla normativa, ribattezzata “legge russa” per la sua somiglianza a quella di Mosca del 2012 che ha permesso di reprimere gran parte delle voci di dissenso, le organizzazioni non governative e i media che ricevono oltre il 20% dei loro finanziamenti dall’estero si dovranno registrare amministrativamente come “organizzazioni che difendono gli interessi stranieri”.
In Georgia, il malcontento, soprattutto giovanile, contro la “legge russa”
Le proteste di piazza, che vanno avanti ormai da tempo, non sono riuscite a bloccarne l’approvazione. Chi teme una svolta autoritaria e in chiave anti-Europa di Tbilisi è la marea di giovani scesi in strada per manifestare il proprio malcontento nei confronti di una legge che li allontanerebbe dal cosiddetto “sogno europeo” e dalla promessa di un Paese diverso.
Pensavo a tutto questo mentre guardavo sconsolato i pannelli nei Comuni vuoti di manifesti elettorali per il prossimo appuntamento dell’otto e nove giugno. Mentre da noi si sta andando al voto europeo nella quasi indifferenza generale, in diversi Paesi del continente molte persone, e tra questi tantissimi giovani, scendono in piazza per chiedere a gran voce le ragioni che hanno fatto grande il nostro continente: democrazia, pace, libertà, diritti, welfare per tutti e non solo per chi ha la carta di credito.
Lo sappiamo, il percorso è accidentato e non sempre ha funzionato al meglio. Eppure la strada è segnata e da questa non si torna indietro. Alla faccia dei sovranisti di casa nostra o di chi pensa di salire sul carro delle istituzioni europee per svuotarle di senso e di contenuti.
Il passato che ha costruito questa Europa
Non è un caso che l’Europa è nata sulle macerie della seconda guerra mondiale e ha rappresentato un esperimento che ha vinto paure secolari e annullato frontiere che sembravano eterne. Paure e frontiere rischiano oggi di perderla. Ed è nata nel 1950 con il cosiddetto Piano Schuman: la produzione del carbone e dell’acciaio franco-tedesca venne messa sotto l’egida di un’autorità superiore ai due Stati, il Vecchio Continente cominciò così il lento (e accidentato) cammino dell’integrazione economica, sociale e politica.
L’idea era quella di evitare di innescare nuovi duri confronti tra potenze per il controllo delle materie prime e la gestione dell’industria pesante, il che aveva portato come conseguenza il voler assoggettare territori ricchi di entrambe (Alsazia, Lorena, ma non solo). Un punto di partenza economico, ma che inevitabilmente diventò subito anchepolitico (i confini non più barriere inviolabili; le istituzioni nazionali sovrane, sì, ma fino a un certo punto), sociale (i popoli finalmente fratelli, non nemici (la paura dell’altro riconosciuta come limite da superare, e non spesa come moneta elettorale).
Oggi l’Europa dell’Unione è più grande dell’Europa dell’impero romano, dell’Europa carolingia e dell’Europa di Napoleone. E per la prima volta, al contrario delle altre, questa unificazione viene fatta con mezzi pacifici. Una rivoluzione nonviolenta senza precedenti: mai era avvenuto, nel corso della storia, che Stati cedessero, volontariamente, pezzi consistenti della propria sovranità. Una comunità di diritto fondata sui Trattati negoziati dagli Stati membri che hanno ceduto competenza verso Bruxelles ma non in egual misura in tutti i settori.
Le riforme necessarie perché l’Europa riparta
Un esperimento che, non a caso, è stato premiato con l’assegnazione nel 2012 del Premio Nobel per la pace. Un’istituzione che ha saputo mostrare in tempo di crisi (pensiamo al Covid) vitalità inaspettate e visioni di respiro (secondo voi, da dove vengono i soldi del PNRR?).
Certo, molto resta da fare. Sicuramente una riforma istituzionale che superi l’impasse del principio dell’unanimità che origina una logica fatta di veti incrociati, per andare verso il voto a maggioranza qualificata. Certo una politica estera, una difesa e un esercito comune. E pure molto altro. Tutto questo sarà compito dei politici che eleggeremo.
Nel frattempo, anche nelle nostre comunità cristiane, smettiamo di far girare la ruota dell’antipolitica e del non voto. Facciamo per noi, per la nostra storia, per il nostro futuro. Facciamolo per i tanti giovani georgiani.