Sono stati tanti coloro che in queste settimane mi hanno chiesto un parere attorno al Sinodo concluso e al Documento Finale. Segno che il lungo percorso, almeno per una parte della comunità ecclesiale, non è stato rimosso. Non era scontato, e già questa è una buona notizia.
Anche perché – diciamolo francamente – si è arrivati al Sinodo con lo scetticismo di molti. Certo di alcuni vescovi che hanno rischiato di cogliere “l’avvenimento ecclesiale più importante, più strategico, dopo il Concilio Vaticano II” (Piero Coda), come una delle tante sollecitazioni di un pontificato più sopportato che amato. Una “fissazione” di papa Bergoglio subita dai vescovi, soprattutto europei, alle prese con un disorientamento inedito e profondo che nasce dalla progressiva consapevolezza di un radicale cambiamento dentro la vita delle persone e delle comunità sempre più distanti dalla vicenda cristiana formulata dalla Chiesa.
Scetticismo di alcuni preti che, per storia e formazione, non sono sufficientemente abituati a pensare e a realizzare, nella prassi non solo nelle parole, una corresponsabilità capace di far crescere donne e uomini adulti nella fede. A fronte di parole spese troppe volte nella chiesa pare valere il principio della “piramide sospesa” (cosi la chiama un teologo), in cui tutto (di)pende dal vertice, gestore e dispensatore del sacro. L’essere parte della comunità ecclesiale è posto perciò sotto il sigillo dell’appartenenza e i fedeli rischiano ancora di essere considerati, in pratica, dei sudditi la cui virtù prima sta nell’obbedienza: attiva, collaborativa, consapevole ma pur sempre obbedienza.
Scetticismo anche di alcuni laici. In fondo, non si cancella in poco tempo una tradizione secolare che li ha voluti subalterni. Ho scritto spesso che la questione dei laici sta al centro delle sfide pastorali che si trovano ad affrontare le nostre comunità parrocchiali. La loro innegabile valorizzazione è avvenuta soprattutto nei termini della loro attiva partecipazione al ministero della Chiesa in qualità di catechisti, di animatori liturgici, di operatori nel campo dell’assistenza. Il rischio è che questo loro impegno dentro la Chiesa – che è comunque indispensabile ed esige anzi un lavoro formativo ancora più preciso – sia visto ancora prevalentemente in termini di collaborazione e di supplenza all’azione del prete. Questa prospettiva non permette di costruire la chiesa come una comunità di battezzati, di cristiani consapevoli – come sottolinea il Documento finale – della loro identità battesimale.
Eppure la strada è tracciata, indietro non si torna. Il Sinodo ha posto in essere uno stile e un metodo – quello dell’ascolto e del discernimento dell’intero popolo di Dio– che non potranno più essere rinnegati.
Non sono ingenuo da non vedere i rischi. Un amico molto caro che ha accompagnato con sapienza il cammino sinodale mi scrive così: “In nome della sinodalità, del camminare tutti insieme, il Papa ha voluto approvare il documento finale così come è uscito dal Sinodo, attribuendogli autorità magisteriale. Esso diventa così parte dell’insegnamento della Chiesa, offrendo orientamenti per la vita ecclesiale, ma senza essere giuridicamente vincolante. In tal modo restano aperte alcune questioni importanti, una su tutte quella del diaconato femminile, in considerazione anche del fatto che alcune Chiese non sono pronte a fare questo passo. Al contempo altre spingono in modo deciso per la sua introduzione. Temo il pericolo che ci si possa appellare alla Sinodalità per esercitare una sorta di diritto di veto, che più che far camminare la Chiesa costituisca di fatto un blocco.”
Non è una questione da sottovalutare. E dunque bisogna vigilare. Ma piaccia o meno (e a molti non piace) il processo è avviato e dove porterà nessuno oggi può saperlo. E’ qualcosa di inedito nella storia recente della Chiesa aver riconosciuto – come sostiene il Documento Finale al numero 79 – che “il discernimento ecclesiale, la cura dei processi decisionali e l’impegno a rendere conto del proprio operato e a valutare l’esito delle decisioni assunte sono pratiche con le quali rispondiamo alla Parola che ci indica le vie della missione”.
Una teologa di vaglia, Stella Morra, ha scritto parole che sento di condividere: “Mi viene il sospetto che siamo tentati di confondere la narrazione con la realtà: e ci attendiamo narrazioni vincenti per dire che il Sinodo ha funzionato (dove vincenti spesso vuol solo dire che sia mediaticamente visibile e d’accordo con quello che io pensavo già prima). Ma la realtà è quella di un guazzabuglio complesso, fatto di tante vite e culture, che fatica e cerca di imparare a muoversi dopo almeno cinque secoli di immobilità, nei quali si era arrivati a teorizzare l’immobilità come sinonimo di verità. Non a caso il card. Ottaviani, certo non amico del Concilio Vaticano II, aveva come motto episcopale Semper idem… Siamo in un grande e doloroso percorso di fisioterapia, neppure sappiamo quali sono i muscoli che dobbiamo muovere. Ma il Sinodo, mi pare, la decisione l’ha presa: reimparare a camminare. Sapranno ancora una volta le donne fare la loro parte? Sono convinta di sì e spero solo che la misura della pazienza di molte di noi non si esaurisca proprio adesso… sarebbe più che comprensibile, ma assai triste.”
Vale per le donne e vale per gli uomini, vale per ogni battezzata e battezzato.
E chissà che strada facendo vescovi, preti, laiche e laici capiscano che solo insieme sarà possibile tracciare strade di Vangelo. In una diversità di carismi, ma su un piano di parità e complementarietà, uscendo dalle relazioni di potere che troppo spesso hanno prevalso, e prevalgono tutt’ora, nella Chiesa. Ne va del Vangelo. Ne va della Chiesa stessa perché come con la solita lucidità osservava mons. Pierangelo Sequeri: “senza la sinodalità la Chiesa non è semplicemente meno simpatica: si corrompe”.